A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II si moltiplicano incontri e simposi all’interno della cosiddetta area cattolica, e non solo, nel tentativo di comprendere cosa sia stato, e cosa resti, di quell’evento straordinario dovuto dall’audacia profetica di Giovanni XXIII e iniziato ufficialmente l’11 ottobre 1962 per poi chiudersi con Paolo VI l’8 dicembre 1965.



Con il discorso Gaudet Mater Ecclesia, Giovanni XXIII rifiutava le visioni catastrofiche della situazione della Chiesa e chiedeva che il Concilio, piuttosto che condannare, rendesse l’annuncio cristiano più comprensibile agli uomini insistendo sulla necessità per tutta la Chiesa di un aggiornamento.

Quindi, rispetto ai venti Concili ecumenici precedenti sino a quello di Nicea (325), il Vaticano II non vuole definire dogmi, non avanza provvedimenti disciplinari e tale atteggiamento è già dichiarato in fase di apertura.



Proprio questo intento programmatico di non fissare, attraverso il Concilio, contenuti dogmatici apre, subito dopo la conclusione del Concilio, lo spazio delle possibili interpretazioni da dare sia all’evento stesso, a ciò che è accaduto nei 3 anni in cui tutto l’ecumene cattolico si è radunato attorno al Papa, sia ai 16 documenti ufficiali scaturiti dal lungo lavoro dei Padri conciliari, assistiti anche dai cosidetti “periti” o “consultori” tra i quali piace ricordare, oltre a p. Henry De Lubac che ha consegnato ai suoi Quaderni del Concilio il diario quasi quotidiano di quanto avvenne, mons. Karol Wojtyla e don Joseph Ratzinger, allora giovanissimo teologo tedesco.



Quest’ultimo, prima ancora che si aprissero ufficialmente i lavori, fu invitato dal presidente della Conferenza episcopale tedesca, card. Frings, a illustrare ai vescovi di lingua tedesca le problematiche teologiche che sarebbero state affrontate all’interno dell’assise ecumenica.

E a Concilio ancora aperto, nel 1965, scrive un breve ma acuto saggio apparso nella Rivista Wort und Wahreit dal titolo Il cristiano e il mondo d’oggi. Riflessioni sullo schema 13 del Concilio.

Ancor prima della uscita del documento Gaudium et spes su “La chiesa nel mondo contemporaneo”, questo scritto di Ratzinger entra nel merito di cosa sia il “mondo” e quale responsabilità, in esso e di fronte ad esso, abbia il singolo cristiano e la Chiesa in quanto tale. Tre passaggi merita sottolineare per il loro valore metodologico.

1. Il mondo non è una tendenza, una moda cui conformarsi per rendere più comunicabile la fede in nome dell’aggiornamento. 2. Il mondo non è una realtà “altra”, di natura oppositiva, in cui la Chiesa debba trasferire il “suo” mondo (cattolico) allo scopo di convertire tendenze, atteggiamenti, posizioni che sono espressione di quanto è presente nel mondo a prescindere dalla Chiesa. 3. L’aggettivo contemporaneo accanto al sostantivo mondo fa dire a Ratzinger: “Per quanto è a mia conoscenza è la prima volta che un documento conciliare, parlando del mondo del nostro tempo, osa includere esplicitamente il fattore della storicità”.

In questo senso l’aggiornamento non è un cedimento allo spirito della modernità, ma la Chiesa che ripensa se stessa, ha una più profonda coscienza di sè che le consente di stare a pieno titolo dentro le circostanze storiche, di fronte alla concretezza dell’uomo così come esso di fatto è.

Occorre tenere presente il terreno di coltura entro il quale l’immensa e faticosa opera del Concilio e dei tre anni preparatori si mosse e si sviluppò. Istanze di varia natura, profonde e frastagliate segnavano il contesto ecclesiale e culturale di quegli anni e vennero a galla esprimendo correnti teologiche e aspettative spesso contrapposte. Ribollivano fermenti nati e diffusi in seno alla Chiesa e non solo…

Si era all’interno di un mondo in fibrillazione che conobbe la pericolosa crisi con Cuba da parte degli Stati Uniti, l’assassinio di Kennedy, la costruzione del muro di Berlino, la rivolta delle masse afroamericane e l’uccisione di Malcom X, la rivolta degli studenti prima a Berkeley poi in tutta Europa culminante nel fatidico ’68, l’influsso amplificato da certi media della rivoluzione culturale cinese, la rivoluzione dei costumi auspicata da W. Reich e in quegli anni propalata da H. Marcuse. Si trattò di sfide di portata epocale tali da sconvolgere gli assetti della società internazionale e capaci di influire profondamente nella formazione di una mentalità.

In questo contesto drammatico il Concilio ebbe il merito di favorire l’incremento, da parte della Chiesa, della propria soggettività storica, la coscienza cioè di essere dentro la realtà del mondo con la peculiarità di un compito e di una responsabilità immensa al cospetto di tutti gli uomini.

A Concilio concluso, le parole più ricorrenti furono l’applicazione e la recezione di quanto eleborato in tutti quegli anni così ricchi e fertili.

Passando il tempo, tentando a distanza di vent’anni un provvisorio bilancio,  l’allora card. Ratzinger intervistato da Vittorio Messori così si espresse: “È incontestabile che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti, a cominciare da quelle di papa Giovanni XXIII e poi di Paolo VI. I cristiani sono di nuovo minoranza, più di quanto lo siano mai stati dalla fine dell’antichità”. “I Papi e i Padri conciliari si aspettavano una nuova unità cattolica e si è invece andati incontro a un dissenso che – per usare e di Paolo VI − è sembrato passare dall’autocritica all’autodistruzione. Ci si aspettava un nuovo entusiasmo e si è invece finiti troppo spesso nella noia e nello scoraggiamento. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è venuto sviluppando in larga misura sotto il segno di un richiamo a un presunto ‘spirito del Concilio’”.

A questo severo giudizio sul postconcilio si accompagna, con limpida chiarezza, la considerazione che “i guasti cui siamo andati incontro in questi venti anni non sono dovuti al Concilio “vero”, ma allo scatenarsi all’interno della Chiesa di forze latenti aggressive, centrifughe, magari irresponsabili oppure semplicemente ingenue, di facile ottimismo, di un’enfasi sulla modernità che ha scambiato il progresso tecnico odierno con un progresso autentico, integrale. E all’esterno, all’impatto con una rivoluzione culturale” (Messori-Ratzinger, Rapporto sulla fede, 1985, pp. 27-28)

Da ciò si capisce che all’indomani del Concilio non fu immediata la consapevolezza di quello straordinario evento che aveva cambiato alla radice la Chiesa stessa e il suo atteggiamento di fronte al mondo intero. Anzi, il proliferare delle interpretazioni che contrassegnarono quello che fu chiamato il postconcilio contribuì a seminare nella moltitudine dei fedeli, assieme a facili entusiasmi,  dubbi e incertezze, quasi un senso inspiegabile di smarrimento.

È questo clima di diffusa incertezza che tematizza Hans Urs von Balthasar nel suo Cordula, ovverosia il caso serio (1966), breve ma densa opera di sofferta lettura dello status della fede in quegli anni fertili ma non privi di contraddizioni. Il grande teologo svizzero del secolo scorso – tra l’altro non ebbe la possibilità di partecipare a nessun lavoro del Concilio né alle Commissioni preparatorie − colse con acuta intelligenza quello che lui definì il caso serio, cioè il criterio per la vita della Chiesa e la forma della vita cristiana.

 

Il postconcilio, dunque, vide crescere e contrapporsi una pluralità di diverse interpretazioni: “la Chiesa del dopo Concilio è un grande cantiere; ma è un cantiere dove è andato perduto il progetto e ciascuno continua a fabbricare secondo il suo gusto” (Messori-Ratzinger, cit., p. 28).

La bibliografia sulle “letture” e valutazioni del Vaticano II è sterminata ed è segno comunque della profondità e complessità dell’avvenimento conciliare che privilegiò la “pastoralità”, aprì in modo mirabile all’ecumenismo (basti pensare al venir meno dell’accusa di “deicidio” che pesava da secoli sugli Ebrei), al dialogo con le confessioni non cristiane, alla libertà religiosa.

Di fatto si consolidarono due tendenze interpretative (due ermeneutiche) una delle quali sottolinea la discontinuità del Concilio rispetto alla Tradizione: il Vaticano II ha la natura di un Evento non assimilabile alla Tradizione e il suo criterio veritativo è affidato alla correttezza della prassi. Tale posizione trova i suoi punti di forza nella cosiddetta Scuola di Bologna voluta da don Giuseppe Dossetti e avente come caposcuola Giuseppe Alberigo, che ha dedicato agli studi sul Concilio opere monumentali e storicamente autorevoli. Sempre nell’ottica della discontinuità, ma in senso fortemente tradizionalista, c’è l’opera dello svizzero prof. Romano Amerio che pubblicò vent’anni dopo la chiusura del Concilio Jota unum. Studio sulle variazioni della Chiesa nel secolo XX, fortemente critico con le delibere conciliari ed il papato.

Per questo Benedetto XVI nel suo Discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 riferendosi a quanto accaduto durante tutti gli anni successivi al Concilio ecumenico afferma che “i problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti”. E papa Ratzinger prosegue con inesorabile determinazione: “Da una parte esiste una interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è ‘l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore ci ha donato…”. Forse è il caso di notare che l’ermeneutica della riforma e del cambiamento non è semplicemente oppositiva a quella della discontinuità, ma inclusiva di tutta l’ansia di rinnovamento che attraversa la posizione opposta.

Sorprende una strana coincidenza di date: a cinquant’anni da quell’evento epocale che scosse la Chiesa fin dalle fondamenta ridestandola alla coscienza di sé e al coraggio di misurarsi con tutte le sfide del mondo di oggi, si è aperto l’Anno della fede che ci rende testimoni di un impeto travolgente capace di toccare nel profondo le coscienze e aprirle a riconoscere, in assoluta semplicità, l’irresistibile attrattiva del Fatto cristiano. Ora come allora.