«I Paesi delle rivolte, dalla Tunisia all’Egitto, hanno tentato di fare proprio questo, di uccidere il re, ma il parricidio non si è compiuto. E il rinnovamento si è fermato». Con il rischio che a prevalere siano gli integralisti, nemici della cultura e della libertà. Anche in paesi come la Francia, dove – dopo il caso delle vignette satiriche di Charlie Ebdo – lo Stato fa la voce grossa e minaccia di espellere i fedeli musulmani che non rispettano la Repubblica. A dirlo è Rachid Benhadj, regista algerino, autore nel 2005 del controverso Il pane nudo, basato su un libro censurato in quasi tutti i paesi arabi. Se non vogliamo cadere vittime dell’estremismo, «tutti dobbiamo fare una purificazione». Come quella di cui ha parlato il Papa, «che si applica benissimo anche ai musulmani».
Rachid Benhadj, la primavera araba è finita?
C’è una metafora molto eloquente che si può usare in proposito. «Scacco matto», in arabo, si dice ashayk mat, che letteralmente vuol dire «re ucciso». I Paesi delle rivolte, dalla Tunisia all’Egitto, hanno tentato di fare proprio questo, di uccidere il re, ma il parricidio non si è compiuto. La Tunisia ha avuto Bourguiba, l’Egitto Nasser e Mubarak. Le rivoluzioni sono state il momento del bilancio con i padri delle patrie, ma la loro morte simbolica non si è consumata del tutto e il rinnovamento si è fermato.
Perché dice questo?
Perché la primavera araba non è mai diventata un rinnovamento di cui la società medesima fosse protagonista. Abbiamo spostato altre pedine sulla scacchiera, ma non abbiamo ucciso realmente il «padre».
Il ministro dell’Interno francese Manuel Valls, inaugurando a Strasburgo la più grande moschea di Francia, ha detto: «non esiterò ad espellere quanti si dichiarano islamici ma poi rappresentano una minaccia grave per l’ordine pubblico». Cosa pensa di questa dichiarazione?
Mi lascia perplesso, sembra dettata più che altro dalla demagogia. Se le persone alle quali si riferisce sono francesi di culto musulmano, il loro eventuale reato è un problema di diritto comune e per questo dev’essere la giustizia francese a occuparsene. O li si vuole espellere per la loro religione?
Molte polemiche sono però legate alla costruzione e alla gestione delle moschee in occidente.
Il problema è che in Francia come altrove molte moschee sono finanziate dall’Arabia Saudita, che paga non solo la costruzione, ma anche i muezzin e i costi di gestione. Se lo Stato non investe sulle moschee al pari di un qualsiasi luogo che appartiene al suolo francese, frequentato da cittadini francesi, ne perde il controllo.
Quindi i muezzin dovrebbero essere autorizzati dallo Stato, dalle associazioni, o da chi altri?
In Francia c’è un’assemblea nazionale (Cfcm, Conseil français du cult musulman, ndr) e il suo presidente è il rettore della moschea di Parigi. È questo Consiglio a gestire le moschee che non sono sotto il controllo della monarchia wahabita e questo garantisce una forma di controllo e di tutela. Quelle invece che sono finanziate dall’esterno, sono svincolate. Non sono d’accordo che si debba controllare tutto, ma un minimo, sì.
Quale impressione hanno suscitato in lei le violenze seguite alla divulgazione del cosiddetto «film» su Maometto?
Bisognerebbe chiamarlo in altro modo, perché un film è sempre una cosa seria. È stato un episodio che non aiuta la transizione di paesi in difficoltà come l’Egitto, la Libia, la Tunisia. Ciò che più mi rammarica è che l’Algeria ha vissuto dieci anni di travaglio, in preda al fondamentalismo, ma è come se la lezione di quell’esperienza si fosse perduta. E ora la storia si sta ripetendo. Corriamo davvero il rischio che gli integralisti prendano il potere. Cose come Innocence of muslims (il titolo del film, ndr) possono solo fare il loro gioco.
Come ha giudicato invece le vignette pubblicate dal settimanale satirico francese Charlie Ebdo?
Fuori luogo. Prima di tutto, a nome della democrazia e della stessa libertà. Così facendo si fa uso della libertà di espressione, ma col risultato di fomentare ancor di più gli integralisti; se non in Francia, là dove si questi hanno mano libera, cioè nei Paesi musulmani. Con la conseguenza che tutti coloro che sono di orientamento democratico devono farsi ancor più piccoli, fino a scomparire. Se vogliamo la democrazia, anche noi occidentali dovremmo cambiare approccio, essere più lungimiranti.
Lei è musulmano. Che cosa vuol dire per lei fare cinema?
Il cinema è arte, è cultura. È un mezzo moderno di comunicazione, che non esistema ai tempi del profeta Maometto, ma non per questo perde la sua ragione d’essere, e che oggi, lungi dall’essere in contraddizione con la religione, può essere usato per farla conoscere. Gli integralisti, naturalmente, dicono il contrario. Ci considerano creatori e seminatori di dubbi. Raccontare una storia vuol dire sempre porre domande, ma a loro dà fastidio che qualcuno ragioni. È questa la base del fanatismo, che presuppone sempre l’ignoranza.
Che cosa intende dire?
Che ci sono tante cose che molti musulmani dicono a nome dell’islam, ma si tratta di visioni sbagliate, da rivisitare. Molti fedeli non conoscono abbastanza la loro religione. Il Corano è pieno di aspetti che si illuminano solamente con uno studio serio e approfondito. Diversamente, si finisce per applicare dei precetti in modo stupido.
Il suo film Il pane nudo del 2005 è tratto dal romanzo omonimo di Mohamed Choukri che è censurato in quasi tutti i paesi arabi. Cosa ha voluto dire questo per lei?
Il pane nudo è l’esempio di una storia che tocca non solo il mondo arabo ma qualsiasi giovane che, da condizioni miserrime di violenza e ignoranza, può arrivare a riscattarsi dalla miseria e dalla povertà. Il nemico di molte idee sbagliate sulla religione che oggi dominano nel mondo arabo è la profonda ignoranza della gente. È questo il livello in cui agire se si vogliono cambiare le cose. Io ho affrontato questi temi e credo di avere raggiunto il mio scopo senza creare scandalo, ma facendo pensare. Era la vera cosa che mi interessava.
Lei ha appena finito di montare la sua ultima opera. Vuole anticiparci qualcosa?
Nel mio ultimo film, ancor più che nel Pane nudo, affornto i temi della religione, della democrazia e dell’integralismo. È la storia di una grande fotografa algerina che vive a Parigi da vent’anni e che ha ormai tagliato i ponti con la famiglia d’origine. Tornerà in Algeria per capire come mai suo fratello, una persona che aveva una visione completamente diversa della vita, sia potuto cadere vittima del fanatismo e finire in prigione. Perché uno sceglie di essere, di pensare in quel modo? È la stessa domanda che oggi si pone un giovane tunisino, algerino, egiziano di fronte a quello che sta accadendo.
Alla Mostra di Venezia ha suscitato scandalo il controverso film Paradise: Faith di Ulrich Seidl. Si può rappresentare tutto, senza limiti all’empietà?
È vero che oggi vivere in occidente per un cineasta può sembrare facile perché la libertà espressiva è praticamente senza limiti. Nei paesi arabi l’empietà può portare alla morte, in occidente di sicuro riempie il portafoglio. Il problema in occidente non sta più nelle leggi ma nell’etica, che manca. Io non avrei mai fatto un film su Gesù come quello che è stato fatto su Maometto, nemmeno come provocazione. Perché sporcare i valori, quando si può parlare alla coscienza delle persone senza offendere?
Il Papa recandosi in Libano, ha detto che «Il fondamentalismo è sempre una falsificazione della religione» e ha aggiunto che «il compito della Chiesa e delle religioni è sempre quello di purificarsi». Che ne pensa?
Sono parole sagge e intelligenti. In tutte le religioni gli estremismi portano divisione. È scritto nel Corano che uccidere un uomo è come uccidere l’umanità. Allora, uccidere è contro l’uomo stesso! Ogni fanatismo che usa l’islam per un disegno di potere è fuori da ogni concetto religioso, è anche estraneo all’islam medesimo e dunque quello che dice il Papa si applica benissimo anche ai musulmani. Tutti dobbiamo fare una una purificazione, ognuno nel suo lavoro. E più di tutti, forse, devono farla artisti e giornalisti.
(Federico Ferraù)