Da molti anni il 30 ottobre, in Russia, è la “giornata della memoria delle vittime delle repressioni politiche”. Questa commemorazione ha già una lunga storia alle spalle: 38 anni difficili e irripetibili da quando è nata nel 1974, non certo per iniziativa dello Stato, ma di alcuni prigionieri di coscienza in un lager della Mordovia (tra loro Kronid Ljubarskij) che fecero sapere agli amici “di fuori” che loro avevano deciso di ricordare tutti gli innocenti uccisi e imprigionati con uno sciopero della fame. E subito l’accademico Andrej Sacharov, nel suo appartamento moscovita, aveva convocato i giornalisti per rendere nota questa iniziativa e associarvisi. Da quel giorno il 30 ottobre in Russia è diventato il giorno del “detenuto politico”. Non per tutti, naturalmente, ma per pochi, per chi era sensibile alla libertà di coscienza.



Ma questa data nata così bene, dall’iniziativa libera e dal senso di solidarietà di alcuni, ha subito nel tempo un processo di logoramento, soprattutto dopo che il morente Soviet Supremo dell’Urss, a pochi mesi dalla caduta, nel 1991 l’aveva resa una celebrazione ufficiale, a patto però di ribattezzarla come “giornata della memoria delle vittime delle repressioni politiche”, da celebrarsi a Mosca presso la “pietra delle Solovki”, un masso trasportato dalle isole che hanno ospitato uno dei primi e più terribili lager del regime.



Nel giro di una decina d’anni la celebrazione aveva perso il suo pathos e il suo vero significato, era diventata una routine ufficiale: in piazza Lubjanka, presso la pietra delle Solovki e dirimpetto alla minacciosa sede del Kgb, i politici dell’opposizione si esercitavano a cavalcare cinicamente il passato contro il governo, mentre i rappresentanti del governo cercavano di smussare gli angoli mostrando devoto rispetto per le vittime del regime. L’iniziativa presa con tanta responsabilità da alcuni si stava svuotando, il suo vero spirito era tradito. Per questo i membri dell’Associazione Memorial, che fa della memoria la propria missione, hanno riflettuto e cercato una via d’uscita; e la soluzione è apparsa chiara quando hanno intuito che alla storia bisogna accostarsi sul piano personale, attraverso l’uomo. Ad esempio attraverso il nome di ogni vittima, per sentirsi compartecipi, mentre le condanne generali e le cifre non scalfiscono la nostra coscienza.



È nata così, nel 2007 (70° anniversario dell’inizio del Grande Terrore staliniano) l’iniziativa battezzata “Restituzione dei nomi”: ogni anno alla vigilia del 30 ottobre, presso la pietra in piazza Lubjanka, vengono letti a voce alta i nomi dei 30mila fucilati a Mosca nei due anni del Grande Terrore; sono naturalmente un simbolo, una piccolissima parte del numero esorbitante di tutte le vittime. Un gesto sobrio, senza retorica e molto forte, cui partecipava solo chi voleva, e di solito erano gli amici di Memorial e i parenti, sempre più vecchi, delle vittime. 

Dalle 10 di mattina alle 10 di sera i lettori si alternavano e il clima stesso, così serio e spoglio, faceva venire il groppo in gola. Ricordo, due anni fa, che una signora anziana mi aveva detto: “ogni anno siamo sempre di meno”, ed era una desolante constatazione visiva: poche decine di persone erano presenti, come se la memoria fosse una questione di “nicchia”, la vicenda privata dei “poveri parenti”. Nel 2011 nel giro di dodici ore si erano contate 609 presenze.

Quest’anno l’iniziativa si è svolta per la sesta volta, come sempre, e i giardinetti attorno non bastavano a contenere la folla che si accalcava. Per dodici ore dalle cento alle duecento persone hanno stazionato al freddo, in coda, per poter leggere sui fogli distribuiti dai volontari di Memorial quattro nomi (con età, lavoro, data di fucilazione) e deporre un lumino acceso sul piedistallo del masso; l’attesa andava dalle due alle tre ore ma la gente aspettava a zero gradi, con il foglio in mano. Niente avrebbe lasciato supporre che quest’anno le cose sarebbero andate in questo modo: è come se d’un tratto molti moscoviti si fossero resi conto che questa storia riguarda anche loro. Certo non dipende da una migliore pubblicità, il sito della “Restituzione dei nomi” esisteva già prima; evidentemente è avvenuto un passa parola, un diffondersi per osmosi di una coscienza civile che è diventate personale.

Era impressionante lo spettro della varia umanità presente: oltre ai parenti, vecchi, spesso col ritratto del defunto appeso al collo, c’erano ragazzi, molte mamme con bambini, che ci tenevano che anche i figli leggessero dei nomi, gente di mezz’età; davvero nessuna categoria era assente.

Dov’erano l’anno scorso? Sapevano o no di questa iniziativa? È chiaro che in quello che è avvenuto in piazza Lubjanka c’entrano le manifestazioni per le “elezioni pulite”, le marce, i meeting degli ultimi mesi, in una parola la generale rinascita della coscienza civile. Ma la cosa che salta agli occhi è il processo di ricomposizione in unità della coscienza; finora erano esistite due realtà parallele: i cultori della memoria, gli ex dissidenti e i russi di oggi, interessati alla vita concreta di oggi. Ora s’è visto che non è più così, che la coscienza civile del paese, del cittadino russo, ritorna istintivamente all’unità, riabbracciando anche il passato che era stato messo nel cassetto. La Russia, così, senza averlo progettato, torna a proporre all’Europa ciò che ha di meglio: una tradizione civile di responsabilità ampia e sensibile.

In questo si sono trovati nel giusto gli ex dissidenti che da tanto tempo richiamavano alla necessità di conoscere e giudicare il passato; l’incredibile forza d’attrazione di quel piccolo e trascurato simbolo che è la pietra delle Solovki, così sproporzionato rispetto alla mole della Lubjanka, ha finito per avere la meglio, e richiamare all’oggettività della storia e del suo incancellabile ruolo nel presente. Proprio come sta scritto sul sito “Restituzione dei nomi”: ”Se vogliamo vivere in una società nella quale il valore e l’interesse della persona vengano prima del valore e degli interessi dello Stato; in una società nella quale lo Stato non abbia altri valori e interessi che non quello della persona, la nostra strada passa necessariamente per la Pietra delle Solovki. […] Se vogliamo superare la tentazione totalitaria che è dentro di noi, e lasciar fiorire la libertà che è in noi, ci vediamo alla Pietra delle Solovki. In nome dei morti, per noi e per i nostri figli”.

Questa coscienza nuova è stata espressa in modo magistrale da un ragazzo, che dopo aver letto i nomi delle vittime sul foglio ha aggiunto il proprio: “vent’anni, avrei potuto essere fucilato anch’io”.