Mi pare stucchevole che nel cuore di una crisi epocale che riguarda le stesse radici culturali del mondo occidentale, si continuino a prospettare le questioni della bioetica come una discriminante tra mondo laico e mondo cattolico. Trovo addirittura sorprendente che la formazione guidata da Nichi Vendola ponga come punti programmatici il riconoscimento dell’uso illimitato delle tecniche procreative, della possibilità di praticare l’eutanasia e di fare della relazione fra omosessuali una figura analoga a quella della famiglia fondata sul rapporto di coppia tra uomo e donna. Da anni mi sforzo di dimostrare che le problematiche relative a queste “situazioni” non hanno niente a che vedere col rapporto tra fede e scienza e che non ha senso alcuno discettare sui testi sacri per dimostrare il riconoscimento indiscutibile delle libertà individuali rispetto ai temi della nascita, della morte e della famiglia.



Ho cercato in particolare di argomentare, nel modo che a me sembra più realistico e aderente alle nostre tradizioni culturali, che il conflitto non è tra fede e scienza ma tra una visione dell’essere umano affidata al puro principio della casualità e ad una sorta di evoluzionismo necessitato, e una visione dell’uomo inserito in una comunità di altri uomini che si rifiutano di accettare che l’accadere storico sia il frutto del caso e di atti assolutamente predeterminati da cause biologico-sociali.



Come è stato scritto, la scelta che bisogna compiere è tra una visione che, proprio perché ispirata alla casualità, assume l’assurdo come principio regolativo, e una visione che al contrario ritiene che noi siamo immersi in un mistero che ci impone una ricerca continua del senso delle nostre azioni e della responsabilità verso il nostro prossimo. Scegliere in un contesto dominato dal caso è infatti un puro atto arbitrario, mentre scegliere in un contesto dominato dal mistero è sentirsi corresponsabili della ricerca del senso della vita.

Nel modo di affrontare i temi della bioetica ciò che si contrappone non è una visione cattolica e una visione laica, ma una visione laica che si identifica con la conoscenza scientifica del tempo e che non conosce alcuna interrogazione sul senso della vita, e una concezione antropologica fondata sull’appartenenza di ogni essere umano ad una comunità che elabora il proprio modo di stare al mondo. In molti dibattiti a cui ho partecipato ho avuto l’occasione di ascoltare fuori microfono le dichiarazioni di illustri intellettuali che testimoniavano personalmente l’impossibilità di riferirsi a criteri puramente scientifici per affrontare le problematiche di familiari coinvolti in esperienze tragiche. Ho ascoltato ad esempio la testimonianza di un intellettuale, di cui non intendo citare il nome per ovvie ragioni, che ha deciso di idratare il proprio padre morente perché ha percepito la sofferenza anche mentale che quel corpo subiva per effetto della disidratazione. Ho ascoltato testimonianze di donne che dopo aver fatto riferimento all’inseminazione artificiale eterologa hanno vissuto momenti di grave depressione per avere avvertito nell’équipe che la seguiva una visione del suo corpo come mero contenitore alienato di un prodotto esterno. Ho ascoltato discorsi di amici cari che nell’ambito di una relazione omosessuale hanno sperimentato l’angoscia di bambini accolti come figli che hanno subito gravi disturbi per la mancanza del riferimento ad una coppia di genitori.



Sono tutti problemi dunque che possono essere affrontati senza alcun riferimento ai testi sacri e alle confessioni religiose, bensì sul terreno di una seria analisi delle componenti psicologiche e culturali della nostra condizione umana. Come è stato da più parti sottolineato da medici, psicoanalisti e sociologici, ad esempio, l’esperienza della maternità non si risolve col trovarsi all’improvviso un infante tra le braccia, ma rappresenta il punto di arrivo di un percorso psicologico complesso in cui si è sviluppato già prima ancora della nascita materiale un rapporto profondo di comunicazione tra la mente di chi è chiamato ad assumere le funzioni materne e il nascituro. Tutte le riflessioni sulla dinamica psichica intrauterina mostra che il nostro venire al mondo è fortemente influenzato dalle rappresentazioni mentali della futura madre e che tutto l’organismo di essa partecipa fisicamente e psichicamente all’evento della nascita.

L’accoglienza di un essere umano che sta per venire al mondo non è una questione scientifica, ma un riflesso dell’ethos che ispira il gruppo sociale all’interno del quale si produrrà l’evento della nascita. Ridurre l’evento di un essere umano a un puro fatto calcolabile degli elementi che ne definiscono la processualità è a mio parere un errore di grammatica umana e non già la violazione di qualche tabù religioso. Bisognerebbe sviluppare una discussione molto approfondita ed estesa su come le donne partecipano ai processi di procreazione artificiale, e di come spesso sentono la propria identità materna umiliata e depressa fino ad alterare completamente i rapporti affettivi col nuovo nato e con il personale che ha contribuito tecnicamente alla nascita stessa. 

Ci sono riflessioni di antropologi, di psicoanalisti, di storici che dimostrano sotto mille profili che la gravidanza non è soltanto un fatto privato ma un evento sociale che incide su tutti i comportamenti del gruppo al quale la madre appartiene. Purtroppo questa parte della realtà è sistematicamente occultata dalle industrie del mercato di ovociti e gameti che prosperano abbondantemente in altri Paesi e che in nome della libertà non hanno esitato a mercificare l’intero processo procreativo, dimenticando che attraverso la rappresentazione dei ruoli materni e paterni si definiscono le modalità del rapporto col principio della realtà e con il senso del limite e della propria identità.

Ogni forma di civiltà ha definito le regole di convivenza e i principi dell’identità collettiva attraverso il modo di rapportarsi ai temi della nascita e della morte indipendentemente dalle professioni religiose di ciascun gruppo umano. La vita, la nascita e la morte appartengono alla sfera dell’elaborazione del senso che caratterizza la condizione dell’uomo come unico essere vivente capace di riflettere su se stesso. Una subordinazione dell’essere umano ad ogni visione oggettivante, biologista e neonaturalista, in realtà tende a mettere in discussione lo statuto antropologico attraverso il quale continuiamo a vedere il mondo esterno.

Allo stesso modo, per quanto riguarda l’eutanasia, il suicidio assistito, ecc., ci sono studi e riflessioni condotte sul puro terreno antropologico che spiegano queste pratiche di fine vita istituzionalizzate e medicalmente protette come profonde alterazioni delle dinamiche che attengono in profondità alla costituzione dell’identità personale attraverso la consapevolezza del proprio destino mortale e del problema della sopportazione della sofferenza. Senza esprimere giudizi moralistici, che non mi interessano affatto, abbiamo testimonianze di morenti che hanno voluto vivere coscientemente gli ultimi istanti della propria vita per manifestare al gruppo sociale di appartenenza la propria affettività e il proprio messaggio di accettazione dell’evento finale. 

Tutta la cultura dello stoicismo ha ispirato correnti culturali molto radicate nell’occidente che hanno rappresentato per l’appunto una visione molto umana e realistica del rapporto fra ciascun individuo e il destino inevitabile del proprio scomparire. L’idea del venire al mondo e dello scomparire delle cose è alla base di uno dei filoni più importanti della cultura occidentale, che si è sempre misurata col rapporto fra la specificità umana della coscienza e l’accadere necessario dei fatti che sono sottratti al nostro potere. Le visioni della nascita e della morte hanno consentito di percepire il limite umano del nostro potere sulla natura e hanno influenzato profondamente una cultura che, pur dando il primato all’uomo nell’universo, lo ha sempre realisticamente posto di fronte ad una nascita e ad una morte di cui non può disporre a proprio capriccio.

Io non capisco perché questa componente stoica della cultura dell’Occidente non possa oggi essere presa in considerazione per un confronto serio senza inquinare la discussione attraverso le categorie del rapporto fra fede e ragione, e costruendo addirittura su queste antinomia schieramenti politici. Vorrei capire perché qualche rappresentante del centro destra diventa all’improvviso il paladino di principi religiosi quando la sua vita personale mostra in modo clamoroso una notevole distanza dai modelli evangelici. Se c’è un caso dove l’opportunismo e la strumentalizzazione stanno premiando i produttori di chiacchiere a vuoto, questo è il campo della bioetica in cui non c’è più spazio per un’antropologia culturale che cerchi di approfondire le radici dei nostri modelli etici.

Le stesse ragioni di perplessità riguardano l’attuale dibattito sul riconoscimento delle coppie omosessuali come una forma nuova di famiglia. Personalmente ritengo infatti che vadano regolamentati i diritti economici relativi ad una convivenza protratta nel tempo, ma penso che l’adozione di un bambino da parte di una coppia di persone dello stesso sesso rischi di produrre nella rappresentazione mentale del giovane una lacerante distorsione fra l’attitudine a svolgere ruoli femminili e maschili, paterni e materni, e la realtà di una coppia fondata su una somiglianza senza differenza.

Se i problemi della bioetica saranno dunque sottratti alla disputa fra laici e cattolici e assunti come problema antropologico dell’essere umano, non solo si  agevolerà un confronto argomentato seriamente, e non fondato su presupposti ideologici, ma si favorirà una chiarificazione del confronto politico fra gli schieramenti che oggi sono falsamente tenuti in piedi per ragioni di pura opportunità.