Cent’anni fa, nel 1912, esce nella sua forma definitiva L’annuncio a Maria di Paul Claudel, opera teatrale che l’autore iniziò già nel 1892 e riprese prima nel 1901 e poi nel 1910. Nel dramma il sacrificio della croce è rappresentato con una tale forza attraverso la vivacità dei protagonisti che sembra quasi disturbare la coscienza, il perbenismo, il moralismo e il razionalismo che pervadono l’uomo benpensante di oggi, che tende a misurare anche l’amore immaginandosi la forma che esso debba assumere.



Ambientato vicino al monastero di Montevergine verso la fine del Medioevo, il dramma risplende della luce da cui sono illuminati i tre personaggi principali: Anna Vercors, Pietro di Craon e Violaine.

Anna Vercors è sposato con Elisabetta ed è padre di due giovani donne, Mara e Violaine. Ha dedicato tutta la vita al lavoro dei campi, ha faticato e guadagnato, cosciente del debito di gratitudine verso il Signore che fa tutte le cose. Così, riserva le decime per mantenere il convento vicino. Proprio per la percezione della sovrabbondanza di grazia che ha investito la sua vita, decide di partire per la Terrasanta per pregare sopra il Santo Sepolcro per l’unità del suo popolo e dei cristiani, offrendo così le sue azioni per il bene di tutti. Affida la sua vita al Mistero, ben cosciente che potrebbe non ritornare più dal pellegrinaggio. Alla partenza affida Violaine a Giacomo di Hury perché la sposi.



Pietro di Craon è l’architetto costruttore di cattedrali per la comunità, ha votato tutto se stesso all’Ideale. Preso da un momento di debolezza, tentato dalla bellezza di Violaine, ha provato a violentarla, ma la giovane si è opposta con successo. Da quel momento vivrà dedito alla sua opera, soffrendo per il grave  peccato e staccandosi per sempre dai piaceri della carne. Si ammalerà di lebbra.

Violaine è la giovane che vive con entusiasmo la vita, felice di aderire al Mistero così come Esso si rivela. Incontrando colui che ha tentato di violarla tempo addietro, vedendolo lebbroso, mossa da misericordia, lo abbraccia e lo bacia castamente. Gli dice: «Perdonatemi perché son troppo felice! perché quegli ch’io amo, mi ama, e di lui son certa… E perché Dio mi ha creata per essere felice e non per il male e non per la pena». Il bacio porta, però, le sue conseguenze, perché Violaine si ammalerà di lebbra.



Mara, invidiosa e segretamente innamorata del fidanzato della sorella, cerca di ostacolare il matrimonio in tutti i modi: dapprima di fronte alla madre minaccia il suicidio se lei non si opporrà alle nozze; poi, racconta a Giacomo del bacio che Violaine ha dato a Pietro di Craon, il lebbroso. In principio, Giacomo non le crede. Poi, parla con la futura sposa che gli proclama il suo amore. Violaine, però, non ha più l’anello di fidanzamento (avendolo regalato per pietà a Pietro di Craon) e  ha contratto la lebbra. Così il fidanzato dà credito alle parole di Mara e considera l’amata una reproba nonostante la sua attestazione di fedeltà. Rotto il fidanzamento, Violaine parte per il lebbrosario confessando, nonostante tutto, alla madre: «Ah, mamma, come è bella la vita e come sono felice!». 

Trascorrono alcuni anni. Mara e Giacomo si sono sposati, mentre Violaine è ancora al lebbrosario. Un giorno Mara si reca a trovare la sorella. Non è una visita dettata dall’amore e dalla pietà, ma dall’urgenza di aiuto: la bimba nata dal matrimonio è, infatti, morta e la madre chiede il miracolo  a Violaine, che, pur cieca per la malattia, continua a lodare il Signore. Nel dialogo Mara scopre l’innocenza della sorella (che non ha peccato baciando Pietro di Craon, ma ha voluto essere strumento dell’infinita misericordia di Dio verso un’anima sofferente). Così, le chiede di portare su di sé anche il proprio dolore per la perdita della figlia. Pregano tutta notte. La piccola riprende vita e i suoi occhi si fanno del tutto uguali a quelli azzurri di Violaine. D’ora innanzi Giacomo rivedrà negli occhi della figlia quelli dell’amata che non ha mai scordato. Rinasce, così, la gelosia di Mara, che questa volta decide di uccidere la rivale. Violaine viene trovata interrata nella cava di Pietro di Craon. Morente, viene portata a Giacomo. Toccante è l’ultimo colloquio. La donna confessa il proprio amore e la propria fedeltà, attesta di non aver mai peccato con Pietro, ma di averlo baciato perché lui era tanto triste e lei era tanto felice. È convinta che, se anni addietro Giacomo avesse creduto in lei, forse lei sarebbe guarita. Violaine benedice chi l’ha uccisa, racconta l’agguato nella cava e rivela all’uomo il miracolo che Dio ha compiuto su sua figlia. Le sue ultime parole sono: «Com’è bello vivere! […] Come è immensa la gloria di Dio!». 

Mara confessa l’omicidio. Nelle sue parole si evidenzia tutta la distanza tra lei e Violaine: «Io onoro Dio. Ma resti dov’è. È tanto corta la nostra povera vita». Violaine ha, invece, sempre concepito Dio come volto buono del Mistero che bussa alla nostra porta nelle circostanze e negli incontri della giornata: Dio non è da una parte e la vita dall’altra.

Inaspettatamente Anna Vercors ritorna dalla Terrasanta trovando morte la moglie Elisabetta e la figlia Violaine. In queste parole c’è tutta la certezza della sua salda fede: «Ho voluto abbracciare il Sepolcro vuoto, e metter mano nella buca della Croce. Ma la mia piccola Violaine è stata più saggia. Forse che fine della vita è vivere? Forse che i figli di Dio resteranno con fermi piedi su questa miserabile terra? Non vivere, ma morire, e non digrossar la croce ma salirvi, e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna… Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per esser data? E perché tormentarsi quando è così semplice obbedire?». E rivolto alla figlia morta osa dire: «Non t’ho perduta, Violaine! Bella sei,  piccola mia! Bella la fidanzata il giorno delle nozze quando al padre si mostra nella magnifica veste, con deliziosa confusione. Vai innanzi, Violaine, bambina mia; io ti seguirò. Ma volgi ogni tanto il tuo viso, perché io veda i tuoi occhi. Violaine! Elisabetta! presto sarò ancora con voi!».  Con lo sguardo già spalancato sull’eternità attesta: «Benedetta sia la morte nella quale tutte le domande del Pater si compiono». 

La radice di Anna Vercors è il «sì» di Maria all’Angelo, che scaturisce da una gratitudine per il Mistero buono. Elisabetta, invece, non si percepisce dipendente dal Mistero ed è, così, succube delle circostanze e dei comandi altrui (evidente la sua subordinazione al progetto della figlia Mara di sposare Giacomo). Tutti i giorni, ogni istante, possiamo scegliere tra queste due posizioni esistenziali.

Nella scena conclusiva del dramma, Pietro di Craon esclama: «Benedetto sia il Signore, che ha fatto di me un padre di chiese. E mi ha dato il discernimento e il senso delle tre dimensioni, e come lebbroso mi ha interdetto e liberato da ogni cura temporale, perché dalla terra di Francia suscitassi i templi della preghiera». Egli sa vedere l’azione benefica di Dio anche nella malattia e nella sofferenza: anzi, proprio non censurandole, ma affrontandole con una domanda sulla vita, Pietro ha scoperto e seguito la sua vocazione, ha individuato il suo compito.

Che bella la vita quando si scopre il proprio rapporto con la totalità, quando si offre il proprio lavoro al bene di tutti! La vita diventa allora compito necessario e lieto, assunzione di responsabilità, cura e dedizione per l’altro. La metafora dell’architettura testimonia in maniera potente ed efficace la nostra presenza e il nostro compito all’interno del mondo: noi tutti possiamo essere pietre di costruzione, oppure inutili.