Ha sottratto i folli al buio della loro apparente contraddizione, facendone quasi i maestri della nostra condizione umana. È in libreria l’ultimo lavoro di Eugenio Borgna, maestro della psichiatria italiana – non di tutta, non di quella che lui chiama psichiatria fredda, asettica, chiusa nelle angustie della ragione calcolante, ma di quella che parte da ciò che appare, da ciò che emerge dalla viva voce di quei protagonisti dall’interiorità oscura, stretta nella morsa di un dolore che chi sta «dall’altra parte» non può nemmeno immaginare. Ma che si può condividere, in un ideale abbraccio di vita, reso possibile da quel limite ultimo nel quale la fede cristiana, che Brogna non nasconde, vede la causa profonda, ma non definitiva, del male dell’uomo. «È il mio lavoro più complesso e difficile», dice Borgna de Di armonia risuona e di follia (Feltrinelli).
Nel suo libro non si trovano casi clinici, ma «compagni di strada», uomini e donne di cui lei scandaglia e condivide il dramma della sofferenza. Come è arrivato a questo approccio?
Bernanos una volta ha scritto che la speranza più autentica nasce dalla disperazione. Anche le esperienze psicotiche che consideriamo, con un pregiudizio feroce, come radicalmente estranee alla nostra vita, partecipano della nostra condizione umana, fatta di dolori e di speranze ferite. Ma è solo accogliendo nella fede cristiana il mistero come senso definitivo dell’esistenza che sono riuscito ad andare al di là dei sintomi dell’esperienza psicotica. Possiamo capire fino in fondo l’altro solo se lo guardiamo con occhi bagnati di lacrime; segno commosso di una ipersensibilità a quella condizione finita che è propria di tutti gli uomini, e che nel caso di chi soffre è affetta da patologia.
L’opinione comune vede nel folle colui che è agli antipodi della razionalità. Lei, attraverso la sensibilità acutissima che trapela da innumerevoli testimonianze letterarie, mostra l’opposto.
La forza feroce del pregiudizio induce quasi sempre le persone a rispondere con parole crudeli, ingiuste, chiuse ad ogni intuizione del mistero che si trova in chi è annientato dal dolore. Ma il diapason dell’angoscia vibra in questi malati a profondità che sono a noi sconosciute, e può accadere che la comune natura umana, vittima in essi di una sofferenza più intensa della nostra, faccia loro cogliere l’indicibile.
Di quale zona oscura sta parlando, professore?
Di un’area immensa, che si dischiude al di là di quella che la psichiatria in genere considera la forma unica con cui i disturbi psichici si manifestano. Di uno spazio difficilmente sondabile fatto di nostalgia, angoscia, sofferenza, smarrimento, disperazione, ricerca, che può sconfinare anche nella morte volontaria, o nell’esperienza del nulla di cui ci ha parlato, nel suo dramma, Etty Hillesum.
La follia è creatrice?
Sì. Questa tristezza e questa disperazione sono anche le medesime che ritroviamo spalancate su orizzonti di immaginazione, di creazione artistica o poetica che a noi comuni uomini sono preclusi. Così, nel profondo di esperienze psicotiche che vengono in genere considerate insensate, si nascondono slanci creativi che senza il genio non raggiungerebbero le altezze espressive che l’arte e la cultura ci attestano in modo indubitabile, d’accordo, ma che senza la malattia forse non sarebbero arrivate a quell’intensità e profondità emozionale che scaturiscono da un cuore ferito.
Qual è il più grande errore che può commettere la psichiatria, nel tempo in cui viviamo?
Quello di assegnare alla ragione calcolante, astratta, alla ragione delle apparenze, il solo modo per capire che cosa il paziente abbia, come questo paziente si deve curare o se esso deve essere abbandonato al suo destino.
A quale ragione occorre invece affidarsi?
L’altro modo di interpretare la sofferenza, la malattia, la cura è quello fenomenologico, basato sull’eredità di grandi pensatori come Guardini, Scheler, Husserl, Heidegger. Non mi fermo alle apparenze, ai comportamenti, ai sintomi ma li trascendo, cercando di capire, sulla loro base, quali siano i sentimenti, le emozioni, la vita interiore dell’altro. La vita interiore è il soggetto-oggetto di ogni psichiatria fenomenologica. Seguendo questo cammino che volge verso l’interiorità, cercherò di immedesimarmi − il termine è Einfühlung −, di «calarmi dentro» i veri sentimenti, le emozioni, gli slanci vitali, le speranze del malato.
Come può avvenire questo, senza distruggere quello spazio?
Se io nego a priori che nella follia ci possa essere anche un solo granello di sapienza e di saggezza, ovvero di umanità, è ovvio che mai riuscirò a calarmi dentro una vita in sofferenza. Ma per farlo devo mettere tra parentesi i giudizi istintivi che mi vengono da un’analisi superficiale, liberarmi da pregiudizi e ideologie. Così facendo riesco a capire infinitamente di più di tutto quello che puntualmente si perderebbe in un approccio fondato sulla ragione strumentale…
E quando il «miracolo della comprensione» avviene?
Comprendere cosa c’è nella vita interiore dell’altro vuol dire capire di più se stessi. Torno così alla sua domanda, e arrivo al fondamento dell’esplorazione di ogni interiorità: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.
Cosa ci insegna la malattia, professore?
Romano Guardini è arrivato a chiedersi se tra una vita sana in senso completo, o screziata dalla malattia, a volte non troviamo valori più alti proprio in quest’ultima, che fa sgorgare in noi motivi di riflessione, di contemplazione, di comprensione che non sarebbero possibili altrimenti. Anche la malattia è un dono.
Lei chiude il suo libro con una riflessione sulla «comunità di destino» che avviene tra chi cura e chi è curato. Che cosa intende?
È un’immagine non mia, ma bellissima. Non c’è incontro realmente umano se non avviene in noi un cambiamento; a maggior ragione, non c’è vero incontro terapeutico che non cambi chi cura insieme a chi è curato. Più entrambi riescono a porsi su simmetrici orizzonti di senso, più la cura assume il suo pieno significato. Se ascolto, se non giudico, se riesco a creare una comunione e se chi sta male avverte che dall’altra parte non c’è una persona estranea alla sua angoscia, ma un uomo che sa vivere sia pure in maniera diversa i suoi problemi, ecco, già questa è terapia, già questo è il fondamento − appunto − di una comunità di destino. Essa si realizza quando medico e paziente si avvertano legati innanzitutto da un comune orizzonte, di dolore ma anche di salvezza.
Ha usato espressioni sempre più forti: dopo «destino», «salvezza». Perché?
Siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Questo è l’ultimo fondamento che consente di guardare l’altro dall’unico punto di vista che mai consentirà di venir meno al rispetto di una dignità, e di una libertà, assediate dal male.
(Federico Ferraù)