Vengono tanti pensieri nel veder finalmente comparire un proprio libro. Quello che ho dedicato alla vita e agli scritti di Charles Péguy è in libreria da pochi giorni e non posso nascondere la soddisfazione propria di chi porta a compimento una fatica che l’ha accompagnato per molto tempo. Ripercorro i momenti salienti: quando mi è venuta l’idea di scrivere – a causa del fascino della «piccola speranza» come l’ha cantata il poeta di Orléans, così spesso tentato dalla disperazione -, quando ho timidamente parlato con gli amici per capire se l’idea poteva aver senso, quando ho incominciato a mettere mano alla tastiera per buttar giù le prime pagine. Poi i continui ripensamenti, le permanenti insoddisfazioni perché non riuscivo a dire al meglio quello che sentivo, la paura di tradire il pensiero dell’autore trattato, l’entusiasmo per una scoperta e la commozione per il fatto che una certa pagina mi aiutava a capire qualcosa di importante. E poi, ancora, la ricerca dell’editore, i contatti, gli accordi, la correzione finale, le bozze, la scelta della copertina. Alla fine il libro è qui ed è inevitabile chiedersi se ne sia valsa la pena.
Ovviamente ogni autore scrive per essere letto. È quindi con una certa trepidazione che cerco di capire come il frutto del mio lavoro sarà accolto. Certo, se penso a quanti libri escono in un giorno, mi viene il sospetto che il mio potrebbe passare del tutto inosservato. Se poi considero quali sono i criteri con cui funziona il «mercato» delle recensioni e delle classifiche, mi chiedo che buona accoglienza potrà mai trovare un libro il cui protagonista ha sempre combattuto un’impari battaglia contro il potere intellettuale ed accademico del suo tempo; le cose, da questo punto di vista, non sono cambiate ed è ben difficile che un libro su Péguy sia accolto meglio di quanto lo siano stati quelli di Péguy (la sua prima Giovanna d’Arco ha venduto una copia sola).
A ben pensarci però, tutte queste difficoltà riguardano ogni fenomeno di comunicazione: chi si azzarderebbe a dire alcunché, se volesse farlo solo quando fosse sicuro di essersi espresso al massimo e di venir perfettamente capito? Ogni comunicazione è un tentativo imperfetto. Chi dice una frase – fosse pure lunga come un libro – ha l’unica responsabilità di essere sincero, cioè di affermare qualcosa in cui non solo crede, ma che anche ritiene utile per sé e per l’interlocutore. Per il resto si affida alla sincerità di chi lo ascolta o legge.
A riguardo Péguy usava frequentemente un’efficace espressione: «Non bisogna barare». E certamente il vago malessere che coglie ascoltando tanti discorsi o leggendo molto di quel che capita tra le mani è proprio dovuto alla sensazione che chi parla o scrive stia almeno un poco barando, non la dica giusta fino in fondo, non sia veramente e personalmente implicato con quello che sta sostenendo. E così autorizza implicitamente l’ascoltatore o il lettore a barare anche lui. Lo spiega bene ancora Péguy, in una lettera scritta quando era al liceo, in cui dice del suo professore di filosofia: «Ho l’impressione che mi insegni tante cose di cui non crede una parola. Ma gli rendo la pariglia e non credo a niente di quello che dice».
Sono, dunque, tranquillo: non ho barato né accostando Péguy – e così ho imparato molto -, né scrivendo di lui; ora quel che ne è uscito è completamente affidato alla libertà di chi vorrà paragonarvisi.