Non amo il vittimismo. Non l’ho mai amato soprattutto quando si tratta del mondo arabo e di raccontarne la storia presente e passata. Non amo nemmeno l’interpretazione a senso unico delle vicende che coinvolgono uomini liberi, che in questo modo passano per inermi vittime di un qualcosa che hanno invece il dovere di combattere. Immagino sia piuttosto semplice avere un’idea di cosa accade nel mondo arabo osservandolo di tanto in tanto dal finestrino di un aereo. Oppure leggendo la cronaca sui giornali di qualche capitale europea.
In alcune elaborazioni intellettuali, ottime per le chiacchiere da salotto ma piuttosto vuote quando si parla di azione sul campo, noto ormai scoramento e brutta abitudine a indirizzare responsabilità certe verso realtà difficilmente contrastabili. Mi spiego più chiaramente. Prendersela con l’Occidente e con gli Stati Uniti se oggi il binomio Islam-terrorismo è divenuto d’ordine quotidiano, mi pare esercizio di stile abbastanza sterile oltre che poco costruttivo per gli arabi che davvero sono preda e vittima del terrorismo. Qui il discorso è più serio che mai. Non mi diverte affatto né mi ha mai appassionato la costruzione di un’idea del mondo arabo improntata alla piaggeria e al pianto che frutta: la maggioranza degli arabi, quelli moderati e dediti alla realizzazione di un quadrante più stabile e libero, certo non hanno mai chiesto lacrime e mani protese nella ricerca di un obolo di carità.
Anzi. Ciò che dal mondo arabo moderato e illuminato si è sempre chiesto è aiuto contro l’estremismo, che ha infettato la società e che mangia con voracità tutti gli spazi di libertà rimasti. Al Qaeda? Al Qaeda è sì una struttura terroristica, come in altri paesi del mondo, come Irlanda, Spagna e in passato Italia, che aiuta la percezione del binomio di cui sopra, ma appare piuttosto chiaro che se il radicalismo come lo conosciamo non facesse da legame con alcuni strati sociali delle realtà arabe, il binomio, appunto, non avrebbe mai avuto luogo. E se i media poi, arabi e occidentali avessero avuto il buongusto di mandare in onda anche qualche manifestazione di arabi liberali e di società civile contro il terrorismo e il radicalismo, e se gli intellettuali ci avessero messo la faccia, come, fra i tanti, Tahar Djaout, Mohamed Boukhobza e la regista Hafsa Zinai Koudil in Algeria, certo le cose sarebbero andate in maniera totalmente diversa. Ma si sa, soprattutto in certi frangenti, le tv satellitari preferiscono mandare in onda telepredicatori che torturano le figlie di cinque anni con la frusta e le uccidono con il ferro da stiro arroventato o salafiti mascherati da moderati mentre inneggiano alla distruzione delle Piramidi in Egitto come fu per i Buddha in Afghanistan.
Mi pare, inoltre, che alcuni commentatori di solito attenti a fatti e atti del mondo arabo, dimentichino − spero non colpevolmente − il ruolo dei sauditi e dei qatariti nella vicenda dell’estremismo di matrice islamica. Un ruolo non secondario, posso dire, che ha portato alla ribalta ciò che i terroristi amano di più: fondi senza freno per realizzare una jihad coi fiocchi a danno dei musulmani moderati e di tutti coloro che non si piegano. L’undici settembre, dobbiamo essere chiari su questo, non ha certo cambiato le cose, forse, nella considerazione di certi movimenti ha solo accelerato i processi di formazione di un certo pensiero. Credo, con estrema sincerità, che l’ultimo problema degli arabi moderati e liberali sia quello di rimanere qualche ora in aeroporto per procedure di riconoscimento e che questa realtà sia superata ormai da anni, anche perché chi in patria vive da clandestino per sfuggire alla lama dell’estremismo, e non alla nomea di terrorista, l’aereo lo prende molto di rado.
Questo problema, dunque, attiene solo a chi fa dell’elucubrazione culturale erudita il suo lavoro quotidiano, e che può quindi permettersi di considerare problemi un’attesa più prolungata presso un check-in. Da dietro un vetro argentato, mi pare di capire, i problemi sembrano più sfumati, fino a sbiadire nell’ombra tenue di un leggero malanimo. Ma per i moderati si va oltre il malanimo e la tristezza del momento, sanabile con una buona cena fra amici. La paura del radicalismo non si placa con due pacche sulle spalle o con un libricino vademecum sull’islamofobia. Al di là del Mediterraneo c’è molto di più di quanto qualcuno non pensi, pur venendo da quel mondo. Prendiamo esempio, se non dai grandi del passato, almeno dalle bambine che hanno reagito contro l’estremismo rischiando la vita: come Malala, che non è un intellettuale ma sa bene come fronteggiare il terrorismo estremista che infrange ogni regola di libertà. Non ha smesso lei di pensare, possiamo permetterci noi di barattare il pensiero con il vittimismo?