Il prossimo 6 marzo 2013 gli europei saranno chiamati a celebrare per la prima volta la Giornata europea dei Giusti. Si tratta di un traguardo tenacemente perseguito dall’organizzazione internazionale Foresta dei giusti nel mondo (Ga.Ri.Wo.) e dal suo presidente Gabriele Nissim, i quali hanno promosso presso i parlamentari europei l’istituzione di tale giornata attraverso una specifica mozione (primo firmatario Gabriele Albertini). Nei giorni scorsi a Milano si è tenuto un convegno promosso dalla medesima organizzazione insieme al Comune di Milano, il quale ha messo a disposizione la bella sala Alessi di Palazzo Marino. Il focus del convegno era il rapporto tra i giusti e l’identità europea e su di esso si sono concentrati vari studiosi di formazione prevalentemente filosofica.



Partiamo dall’ultimo, forse il nome più prestigioso, sicuramente il volto più noto al pubblico. Massimo Cacciari è stato come al solito acuto e provocatorio. Se si guarda alle vicende di cui sono protagonisti i giusti –  soprattutto agli episodi di salvataggio degli ebrei durante la Shoah che ci fanno venire in mente Oskar Schindler, Giorgio Perlasca e Odoardo Focherini (quest’ultimo di prossima beatificazione) –, non si può fare a meno di notare, secondo il filosofo veneziano, che costoro non hanno agito in base al rispetto delle leggi bensì in nome di un ideale. I giusti ci inducono a prendere coscienza di una tensione che spesso tendiamo a censurare, quella tra la sfera del diritto e la sfera della giustizia.



Il giusto, che spesso agisce contro la norma positiva, esaspera tale tensione che ci permette di scorgere dietro le comuni concezioni della giustizia un suo profilo più originario. Il giusto va al di là di ogni calcolo e misura e non chiede nemmeno vendetta o punizione. Qui la giustizia si confonde con la dimensione del bene poiché l’azione del giusto è ispirata dalla massima (di sapore lontanamente beatlesiano, per così dire) let it be: è giusto che l’altro, colui che ho di fronte a me, sia, esista nella sua autonomia da me; è giusto che esso non sia escluso, che sia ri-guardato, curato. L’altro mi riguarda, tutto mi riguarda. Inoltre, come dicevano i medievali, il bene è effusivum sui, si comunica, si espande. Ecco perché il giusto si dona (sino al sacrificio supremo) e perdona. 



Il discorso di Cacciari tuttavia è ben lontano da ogni forma di facile edificazione. Il problema infatti è che il bene è straordinario, mentre il male è banale. Ciò che è (statisticamente) normale è il male, perché l’atteggiamento che prevale è quello che è sintetizzabile nell’espressione non mi riguarda. È su questa base di inautenticità quotidiana che può fiorire il male radicale, estremo, stragista, cui il Novecento ci ha abituato e che continua anche al di là dei suoi confini cronologici.

Nel mio recente libro Il giusto della politica (ed. Mimesis) ho cercato di mostrare che è possibile una sorta di fenomenologia del bene, vale a dire un discorso rigoroso che metta in luce le caratteristiche antropologiche fondamentali dell’essere umano giusto, le sue condizioni di possibilità.

Qui fornisco solo un paio di indicazioni. Innanzitutto Hannah Arendt ha convincentemente mostrato che il bene morale ha come principale presupposto un certo tipo di soggettività, un animo caratterizzato da capacità immaginativa, riflessività, identificazione empatica, pensiero allargato in grado di porsi dal punto di vista altrui. È solo così che si possiedono i presupposti etici e conoscitivi per (ri)guardare l’altro e riconoscerlo nella sua alterità. In secondo luogo Alasdair MacIntyre ha lavorato sui presupposti sociali di una tale soggettività. Emerge qui la centralità di forme di vita comunitaria in cui il bene della vita (della propria vita e della vita umana in generale) venga programmaticamente messo a tema a partire dalle questioni più concrete che riguardano l’ordinamento dei beni particolari nel momento in cui essi vengono in conflitto l’uno con l’altro. È nelle pratiche che costituiscono la nostra vita quotidiana che impariamo a saper distinguere tra ciò che vale e ciò che non vale, tra ciò che è davvero bene per me e ciò che mi capita solo di volere.

In questo modo è mia convinzione che sia possibile non trovare il metodo per produrre esseri umani giusti (l’occorrenza della bontà nella storia concreta degli uomini mantiene sempre un carattere misterioso), ma bensì comprendere che ci sono forme di vita più friendly nei confronti dei giusti; che, in altri termini, esiste anche un’ecologia morale umana con cui occorre fare i conti.