Il luogo e la data di nascita, dice Ortega y Gasset, costituiscono due terzi di una biografia. Per introdurlo, quindi, sarà bene iniziare col dire che egli nasce a Madrid nel 1883, in un secolo che si disponeva a vivere solo di progresso, materia e calcolo delle utilità. La Spagna, negli anni della sua infanzia, con la perdita di Cuba e delle Filippine declina come potenza coloniale e negli anni della sua adolescenza è attraversata da forti contrasti politici che contrappongono da una parte l’ideologia socialista favorevole all’instaurazione della Repubblica come primo passo per la rivoluzione marxista e dall’altra i monarchici, appoggiati da una parte importante dell’esercito. In questo contesto Ortega matura quell’attitudine che lo porterà a scrivere opere come Il tema del nostro tempo e La ribellione delle masse, tenere corsi universitari e conferenze, fondare una rivista di cui è stato unico autore, Lo Spettatore, e una in cui chiama a collaborare intellettuali da tutto il mondo, La Rivista dell’Occidente.
Il nucleo centrale attorno a cui ruota la sua vasta produzione si è formato grazie ai suoi anni di studio in Germania, a Marburgo, «dove si leggeva Kant a tutte le ore» e dove la sua filosofia si forma come risposta a tutto il filone di pensiero razionalista, all’idealismo e al relativismo. Dire risposta è però dire poco: il suo pensiero è stato infatti una vera e propria battaglia contro gli errori e le astrazioni della filosofia moderna. Lo vediamo nei saggi Idee e Credenze, Storia come sistema e Che cos’è la filosofia?, dove Ortega ricostruisce i momenti principali della storia del pensiero che hanno portato alla filosofia del “gallo razionalista”, ossia di Cartesio.
L’uomo antico, sostiene Ortega, vive proiettato verso l’esterno, verso il Cosmo delle cose corporali, anche quando scopre le idee, forme incorruttibili, immateriali degli oggetti visibili, esse abitano in un mondo a sé. L’anima per il filosofo greco è principio di movimento e cambiamento ed è composta da materia sottilissima, un principio cosmico di vitalità corporea. Gli dèi greci sono sommi poteri cosmici, sublimi potenze naturali che, pur essendo al di sopra del mondo, ne fanno parte. La scoperta del mondo interiore avviene quando Dio, il Dio che parla da un roveto ardente a Mosè, il Dio assolutamente trascendente, prende carne. Sant’Agostino è il primo filosofo che cerca in modo drammatico il modo per rapportarsi a questo Dio trascendente e comprende che nel cuore dell’uomo abita la Verità, comprende che il Dio cristiano abita nel suo cuore, gli è più intimo di se stesso e da lì lo chiama ad un incontro d’amore.
Per Ortega la filosofia in questi secoli vive una svalutazione della ragione perché per Sant’Agostino non c’è propriamente ragione umana, ma una persistente illuminazione con cui Dio ci soccorre. Una prima rivalutazione della ragione avviene con Sant’Anselmo, il quale afferma che la fede per completarsi ha bisogno della ragione: fides quaerens intellectum. San Tommaso, poi, riconosce alla ragione puramente umana una potenza sostanziale, separata e indipendente dalla fede: l’intelletto non è più solo uno strumento per rischiarare la Rivelazione, ma ha degli ambiti di applicazione distinti e l’uomo ha il dovere di usare la sua ragione sia per conoscere di più Dio, che per comprendere se stesso e la realtà. Dio è l’Essere ragionevole per eccellenza, anzi Egli è innanzitutto Intelletto, Ragione, Logos.
Il momento di rottura più netto avviene con Guglielmo di Ockham, il quale afferma che in Dio la Sua volontà precede la Sua ragione. Non si può conoscere Dio perché non agisce in modo razionale, si può solo comunicare burocraticamente con Lui attraverso la Chiesa. Dio avrebbe potuto incarnarsi anche in una creatura irrazionale, avrebbe potuto creare il mondo diverso da ciò che è. Questo pensiero avrà delle conseguenze drammatiche, tanto che Ortega chiama Ockham “il maestro dei nostri professori”, ritenendolo quasi la vera radice della filosofia moderna. Non riconoscere che Dio è il Logos, attribuendogli una volontà irragionevole ha avuto come esito quello di esaltare il ruolo della volontà e creare così i presupposti e le basi alla volontà di potenza di Nietzsche, come al al relativismo, svuotando del contenuto di ragionevolezza la fede. A partire da Ockham, da una parte, poiché Dio non è conoscibile, gli occamisti di Parigi iniziano ad interessarsi di più del mondo e saranno, così, gli iniziatori della scienza sperimentale; dall’altra parte poiché non si può più chiedere certezze a Dio o alla Chiesa, l’uomo inizia a cercarle in se stesso, nella sua stessa ragione.
Ora, poiché la certezza che aveva sostenuto l’uomo gotico, la certezza della fede in Dio, è stata smontata, subentra la paura che il mondo esterno, che la realtà, sia tutto un inganno, non sia come appare ai nostri occhi. L’uomo perde il rapporto di fiducia che aveva nella realtà perché ha perso la vera fede in Dio. Cartesio cerca una nuova fonte di certezza, un dato indubitabile e lo trova nel dubbio stesso. Il dubbio pone in essere il pensiero, è un pensiero. Il pensiero è l’unica cosa dell’Universo la cui esistenza non si può negare, le cose che penso possono non esistere nell’Universo, però il fatto che le penso è indubitabile. A poco a poco, la consistenza del mondo si riduce al suo essere pensato e la coscienza, il soggetto, l’Io crescono fino a diventare in Ficthe l’Universo intero.
Per questa linea l’idealismo ha rinchiuso l’uomo dentro se stesso e ha devitalizzato la vita, perché ha negato la realtà radicale ossia la coesistenza di io e mondo, quella coesistenza su cui si innesta la riflessione di Ortega. “Io sono io e la mia circostanza e se non la salvo neppure io mi salvo”, dice Ortega che vede quale sua missione quella di aiutare l’io ad uscire dalla prigione in cui è stato rinchiuso per secoli e di fargli recuperare un rapporto vitale con la sua circostanza, con la realtà. Per Ortega ci si è dimenticati a lungo che la vita ci è data e che vivere autenticamente è convivere, dialogare con la propria circostanza. Di più, ogni uomo ha in sé una parte irrevocabile, l’io autentico e profondo, che si può realizzare solo rispondendo alle chiamate che la realtà ci pone. Il capriccio offende la serietà della vita perché è un travestire di verità i propri appetiti ed un soffocare il proprio io autentico. Per questo, dice Ortega, il Vangelo insegna che chi perde la propria vita la guadagna, ossia chi rinuncia alla propria volontà per seguire la sua chiamata, il suo io autentico e la sua circostanza, costui realizza la propria vocazione.
La filosofia di Ortega è un continuo richiamo a che l’uomo capisca perché ci si è persi, quali sono i pericoli che possono falsificare la vita, e a che ciascuno viva autenticamente la propria vita. Ortega invita alla vigilanza, a non ridursi ad essere uomini massa, quei “signorini soddisfatti” prodotti dalla filosofia moderna che vivono in balia dei propri desideri e di una libertà senza limiti. L’uomo massa, che può essere anche un “barbaro specializzato” molto competente nella sua materia ma che ignora il resto della vita, “un resto che è sempre il tutto”, non è più un uomo ma un “guscio d’uomo”, un “invertebrato”: è uno snob, ossia sine nobilitate, senza la nobiltà che obbliga e senza una missione da compiere.
L’epoca che descrive è anche la nostra ed è, secondo Ortega, un’epoca che vive senza un fine ultimo in balia di qualsiasi fine: “fare dell’utile il vero è la definizione della menzogna”. Nasce da qui la proposta di una metafisica che torni a cercare il fondamento e il fine ultimo e, allo stesso tempo, insegni ai suoi allievi a comprendere che il vero intellettuale, il vero metafisico, non è chi è più intelligente o chi costruisce i sistemi migliori, ma chi usa la sua intelligenza – tanta o poca non importa – per cercare la verità.