Un Paese allagato, frane e case abbandonate alla furia di torrenti impazziti, crolli di ponti, autostrade trasformate in vie fluviali, centinaia di sfollati dai vigili del fuoco; un ambiente al collasso meteorologico che si aggiunge ai disastri delle fabbriche chiuse per inquinamento e alla riconosciuta pericolosità di molti impianti industriali su cui non è stata esercitata mai alcuna vera sorveglianza. Scioperi e scontri per le strade tra dimostranti e forze di polizia con cariche violente e numerosi feriti e fermati, segni di un Paese che vive con particolare sofferenza l’assenza di politiche di sostegno per il lavoro giovanile e per l’università e la ricerca.



In questo contesto che richiederebbe una profonda consapevolezza della drammaticità della situazione, si sono riuniti a Roma gli Stati Generali della cultura, promossi dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e dall’Accademia dei Lincei, e sostenuti dal pensatoio della Confindustria che ha lanciato un appello agli intellettuali dalle pagine del Sole 24 Ore.



La plebe caotica e rissosa può adesso sognare tranquillamente un futuro di lezioni magistrali nelle piazze di tutti i Paesi italiani per ritrovare la via di una identità perduta. Non è chiaro se questa iniziativa, confrontata con le reali condizioni del Paese, costituisce una provocazione o se c’è chi in buona fede pensa che alcuni giorni di dibattito possano restituire a un popolo frastornato e depresso il senso di una rinascita e la riconquista di una dignità perduta. Francamente io non lo penso, perché gli intellettuali chiamati a partecipare a questo grande momento di riflessione non hanno sin qui messo in campo niente di particolarmente significativo: né per aiutare a comprendere ciò che sta veramente accadendo nel mondo, né per testimoniare attraverso la creatività dell’intelligenza umana le prospettive di fuoriuscita dalla paludosa situazione in cui ci troviamo.



Se il Paese annaspa per un deficit di classe dirigente è un po’ difficile pensare che una concentrazione di intellettuali chiamati a raccolta possa determinare un improvviso salto in un futuro migliore. Direi anzi che questa iniziativa è un’ulteriore prova del distacco fra lo strato intellettuale di questo Paese e la situazione effettiva degli uomini e delle donne che conducono tra mille problemi la loro vita quotidiana. Ciò che non si capisce fra l’altro è cosa intendono per “cultura” i vari promotori di questa e di altre analoghe iniziative che si svolgono in questo periodo. 

Dall’affermazione ricorrente che la cultura può essere anche una leva economica per rilanciare lo sviluppo di questo Paese, sembra che la visione dominante riguardi principalmente la valorizzazione del patrimonio artistico e archeologico in una concezione strumentale di tale patrimonio come mezzo per attrarre turismo dagli altri paesi a dal resto del mondo. A mio parere, una visione dei beni culturali come risorsa economica non ha alcun vero significato innovativo ma rientra piuttosto nella vecchia concezione della cultura come promozione – certo non inutile – delle attività turistiche che possono attrarre gli stranieri nel nostro paese, e non già come una forma complessiva del funzionamento delle intelligenze e dei talenti del cosiddetto capitale umano. 

La cultura, come è emerso chiaramente dal grande dibattito del Novecento, si contrappone alla civilizzazione tecnologica perché coglie l’aspetto della originalità creativa di un popolo nell’elaborare le forme del proprio stare al mondo attraverso immagini e idee che innervano il tessuto collettivo. È cultura, sotto questo profilo, inventare una nuova ricetta per portare a tavola un cibo che riflette e trasforma le usanze alimentari. È cultura dare forma a una visione dell’architettura legata al nuovo modo di abitare che i cittadini cercano di esprimere attraverso la forma delle case e delle abitazioni. Ricordo bene che nel 1973, durante i giorni in cui era vietato l’uso dell’automobile, l’architetto Samonà tenne alcune lezioni popolari sul significato creativo del cosiddetto “abusivismo di necessità”, quando intere generazioni di migranti che tornavano in patria costruivano nelle periferie delle città le loro piccole case con attorno il giardino e l’orto. Samonà cercava di individuare persino nell’abusivismo di necessità una forma di creatività popolare, contrapposta alla logica speculativa di chi costruiva enormi casermoni sul demanio pubblico.

La cultura è sempre creazione e invenzione di nuove forme che incarnano le peculiarità caratteriali di una persona e di un gruppo sociale e che, come sempre è accaduto, si manifestano attraverso nuove immagini del mondo sintoniche con i sentimenti e le emozioni popolari. La cultura non può essere ridotta a un manuale d’uso delle opere letterarie e dei monumenti artistici, ma deve essere sempre intesa come il divenire creativo di un gruppo umano che si confronta con i problemi e le difficoltà del proprio ambiente esterno. La cultura produce immagini e parole nuove, e perciò non può essere distinta dalla forma che un gruppo sociale assume nel suo divenire storico.

Gli artisti e gli intellettuali possono aiutare questo processo se non si isolano nell’autoreferenzialità della propria autorappresentazione. Gli intellettuali che corrispondono alla funzione della cultura non sono predicatori e precettori e non hanno il compito di assumere funzioni pedagogiche rispetto a una maggioranza incolta e incapace di riflettere su se stessa. L’autoreferenzialità degli intellettuali e degli artisti che si chiudono nella loro cerchia produce intellettualismo razionalizzante, ma non apre la mente degli uomini alla creazione e all’espressione dei loro bisogni e dei loro desideri.

L’operazione di convocazione degli Stati Generali della cultura è stata un’operazione propagandistico-spettacolare, come dimostra il semplice fatto che l’inaugurazione dell’incontro è affidata al presidente della Repubblica e le conclusioni al ministro Passera, che, pur essendo delle degne persone, non hanno alcun titolo per proporre al nostro Paese un vero e proprio riscatto culturale. Non si capisce come nel nostro Paese il valore della cultura come forma espressiva della vita di un gruppo umano possa essere incoraggiata se poi si mortificano totalmente l’educazione scolastica, la formazione universitaria e i centri di ricerca. Come si può modificare con gli Stati Generali della cultura la piattezza disciplinare della maggior parte del corpo accademico delle università italiane, imprigionato da specialismi ottusi, che non riesce a trasmettere alcuna passione per lo studio e che è spesso meno preparato dei propri allievi nella visione generale dei caratteri dell’epoca che viviamo? E come può un giornale come il Sole 24 Ore declamare nelle pagine culturali il trionfo dello scientismo evoluzionista contro le antiche tentazioni umanistiche della filosofia e della storia? 

Quello che manca a questo Paese è proprio un asse culturale attorno a cui ricomporre l’unità dello spirito popolare nazionale che oggi è assoggettato a programmi televisivi devastanti dove si assiste soltanto a pantomime del dibattito politico e ad allettamenti osceni dell’esibizionismo infantile (come la trasmissione Ti lascio una canzone). La cultura creativa ha bisogno di misurarsi con la realtà che oggi è nascosta dietro ai paraventi di dibattiti finti e di interviste più o meno manipolate. Qual è il progetto di sistema informativo mediatico che questo governo di “professori” propone alle platee italiane? Francamente non riesco a farmene un’idea giacché anche le trasmissioni televisive più gettonate, come quella di Fabio Fazio, replicano all’infinito un format che serve soltanto a fare pubblicità ad alcuni libri di autori già canonizzati. Eppure, anche questa pantomima degli Stati Generali della cultura serve a rimuovere la realtà di un conflitto sociale che assume sempre più i connotati di uno scontro di classe fra i poteri finanziari che controllano la maggior parte della ricchezza prodotta e le fasce più deboli della maggioranza del popolo.

Non c’è dubbio che i problemi di politica economica segnalano in questo momento un’emergenza seria del bilancio dello Stato, ma se si vuol davvero aprire un credito nuovo alla creatività culturale del Paese bisogna anzitutto uscire dalla logica necessitante dei criteri dell’economia monetaria e porre all’ordine del giorno la questione del superamento della società dei consumi verso una rivalutazione del significato profondamente umano del lavoro e dell’iniziativa del sistema delle imprese verso nuovi settori e nuovi obiettivi. Una cultura consapevole della nostra storia dovrebbe porre al primo posto delle iniziative di riforma un grande piano di risanamento del territorio, che ormai è solo un punto di emergenza catastrofica (terremoti, alluvioni e altri disastri). La manutenzione dell’ambiente, il risanamento delle città, la creazione di nuove infrastrutture per il trasporto possono diventare la leva di nuova occupazione e di una nuova visione del rapporto tra gli abitanti e la loro terra.