Non è molto che in questi stessi luoghi si è presentata quella figura di pensiero diamantato che fu Rodolfo Quadrelli. Essendo il suo lascito ricchissimo e per lo più inesplorato, in questi tempi di confusione torniamo a lui rileggendo il suo saggio La critica di Eliot e la critica italiana, in cui si rende chiarissimo quel nesso tra abuso delle parole e abuso della vita che ne costituiva uno dei pungoli più vivi.
Come spesso accade, il discorso quadrelliano è un discorso letterario che – credendo realmente il suo autore nella letteratura – è capace di fare da lente focale su atteggiamenti sociali e vizi della ragione pubblica e del suo uso. Lo vediamo già nella cura con cui definisce il problema e gli interlocutori, ai quali dando più credito di quanto se ne diano essi stessi, non risparmia sferzate violente, unite a un certo sprezzo verso la loro presunzione dotta e irresponsabile: «Il critico letterario comune, e specialmente quell’ombra di scrittore che è il recensore letterario di giornali e riviste, ci dà sempre l’impressione di una resa storicistica al testo letterario come fatto, accettato secondo il liberalismo romantico per il quale ogni poeta può dire ciò che vuole» (La critica di Eliot e la critica italiana, in Il linguaggio della poesia, Vallecchi, 1969, p. 63).
Non è affatto vero, sostiene Quadrelli, che il poeta sia libero di dire ciò che vuole: egli ha da dire infatti ciò che deve, il che è francamente più utile e interessante tanto per lui, quanto per il mondo. Qual è allora il vizio di ragione che lo induce a bearsi – lui e il critico suo connivente – in questo liberalismo in cui tutti possono dire tutto, tutti hanno un po’ di ragione purché ne lascino un poco anche agli altri e non esiste né verità né menzogna? «C’è un tipo di critico che ritiene di divenire padrone della realtà di cui parla, semplicemente perché la giudica: in realtà può divenirne soltanto il complice» (p. 64).
È da questa presunzione di ergersi a giudici del passato e del presente, anziché di lasciarsene giudicare, che discende l’irresponsabilità verso le parole e verso le cose: una irresponsabilità il cui corrispettivo teoretico è lo storicismo, con il suo armamentario di giustificazioni a posteriori che giustizia il passato invece di rendergli giustizia e castra così ogni reale possibilità di futuro. Come scrive in un saggio coevo, lo storicismo è infatti «sempre in ritardo rispetto alla realtà, per aver preferito il possesso alla responsabilità verso la letteratura, per aver fatto monopolio e usura di una realtà anziché farla circolare» (L’allegoria della poesia e l’allegoria di Dante, in Il linguaggio della poesia, p. 32).
Se si trattasse di questioni estetiche, come siamo abituati a pensare, non sarebbe poi così grave. Sarebbe triste senz’altro, ma avremmo cose ben più serie di cui occuparci. E proprio per condurci a questo giudizio il potere accetta e sollecita la parola irresponsabile, approfittando dello scetticismo e del nichilismo che genera: «Si provi a leggere la critica occasionale sulle riviste letterarie o sui giornali e si vedrà che il linguaggio del critico è ambiguo e corrotto, e spesso incomprensibile, perché tenta di adeguarsi a qualcosa che è già fatto, malgrado esso possa essere arbitrario e irriducibile a un ordine intelligente. Non meraviglia dunque che le recensioni siano (per lo più) tanto elogiative quanto generiche. Sono come la smorfia della scimmia, che ripete ogni gesto caduto sotto la sua attenzione, per quanto osceno o assurdo esso possa essere». Si capisce senza troppo sforzo come chi legge un simile linguaggio non possa che ricavarne «un’impressione di futilità e di finale inutilità della letteratura», un’impressione che «fa assai comodo agli economisti e ai politici, e infine a tutti i calcolatori della realtà, ai quali questi letterati hanno accettato di lasciare la parte più importante» (pp. 64-65).
Qual è allora, secondo Quadrelli, il punto d’origine? Centrale nel suo pensiero è la percezione dell’irrealismo in cui vive l’uomo moderno, il quale non percependo più la consistenza delle cose, nemmeno ne percepisce l’inconsistenza ultima, impedendosi così la possibilità di riconoscere il loro legame con il trascendente. E se ciò vale per l’integralità dell’uomo e di ciò che vive, tanto più varrà per i testi, che ne sono non più di un’espressione: «[…] Il critico mondano considera i testi della poesia come prodotti sufficienti nei quali tutto finisce. Egli non capisce che essi non sono la storia, ma la crosta e la feccia che nasconde la storia […]» (p. 66).
Quando le parole si usurano, si usurano anche gli oggetti che rappresentano e noi ci ritroviamo a trattare non con le cose e le persone, con i sentimenti e le emozioni, ma con i loro simulacri, finendo così a vivere il simulacro di noi stessi. Al potere serve questo distacco tra estetica e morale, tra bellezza e voler essere, tra finito e infinito, ed è per questo che idolatra la grandezza ma odia il bene. In questo senso, l’uomo senza Dio, l’uomo senza la percezione del proprio bisogno di Dio, non è in fondo che l’inconsapevole cavallo di Troia con cui il male gioca la propria battaglia contro l’essere: «L’Ottocento ha esasperato criteri come “grande” e “piccolo”, sostituendoli, in realtà, ai giusti criteri, quelli di “bene” e di “male”. Si diede importanza a termini assurdi come “capolavoro” o “poeta minore”, non considerando che il buono in poesia costituisce un tutto unico, composto da scrittori idealmente anonimi e indistinguibili […]. In realtà quei criteri furono foggiati affinché il critico potesse esprimere giudizi non responsabili: la grandezza si può ammirare senza parteciparvi; non così il bene che pretende una partecipazione per esser conosciuto» (pp. 66-67).
Ammirare e passare avanti finché il gioco dura o partecipare, sporcarsi la carne e conoscere il bene. Fate il vostro gioco, dice Quadrelli: e allora, chi vuole scherzare con le parole? Chi vuole scherzare con la vita?