Nel discorso politico l’interesse è stato demonizzato: dai tempi del contratto sociale di Rousseau (1762), il dis-interesse rappresenta in effetti “la” virtù, personale e civile, per eccellenza. Chi lo incarna possiede, agli occhi della società, quella garanzia di incorruttibilità che ne fa il decisore ideale: al di sopra delle parti, capace di uno sguardo oggettivo, omnicomprensivo, totale. Avere degli interessi è sinonimo, per contro, di slealtà, ingiustizia, in una parola corruzione.
La convinzione che il disinteresse sia una virtù nasce, appunto, dall’etica del contratto sociale, secondo la quale l’unico modo per ripristinare la beata uguaglianza originaria, che regnava tra gli uomini all’inizio dei tempi, è l’abolizione della proprietà privata e l’espropriazione di ogni diritto in favore della collettività, unica depositaria dell’“interesse generale”, collettivo. L’interesse generale si oppone agli interessi privati negandoli. Coltivare un interesse privato infatti è contrario all’interesse generale: chi ha un interesse privato è corrotto per definizione. Coltivare l’interesse generale coincide con l’eliminazione sistematica di qualsiasi interesse privato, e non esistono alternative. Conosciamo il seguito.
È evidente che una dialettica di questo tipo non ha nulla a che spartire con il principio democratico, inteso come tentativo – continuamente rinnovato – di mediare ragionevolmente tra gli interessi diversi (e spesso contrapposti) delle diverse parti. Ma la retorica del disinteresse è subdola e ci abbaglia facilmente soprattutto in un momento, come quello attuale, in cui la connessione tra coinvolgimento personale e corruzione ci viene posta sotto gli occhi ossessivamente, proprio con lo scopo di persuaderci che si tratta di un sodalizio inevitabile. Così ci troviamo ben disposti a salutare come salvatore chi si mostra, appunto, al di sopra delle parti.
Nel discorso politico di oggi questa dialettica torna in primo piano, suscita il nostro senso di colpa per le cose belle che abbiamo costruito e di cui godiamo, come se le avessimo rubate a qualcun altro. Ci fa dimenticare, al contempo, la condivisione come dinamica di crescita e arricchimento reciproco: l’unico comandamento è pensare all’interesse di tutti, così non penso più all’interesse mio né a quello degli amici… Parlare di interesse proprio e degli amici diventa sinonimo di corruzione: non è esattamente questo, l’effetto che fa? Ecco: siamo manipolati.
Perché senza interesse non c’è movimento, non c’è dinamismo, addirittura non ci sarebbe comunicazione. Il discorso più onesto e razionale di questo mondo ci lascia indifferenti (cioè, tecnicamente, non ha senso per noi) nella misura in cui non lo “sentiamo” vicino, se non riguarda cioè quel ci sta a cuore. La dinamica dell’interesse è la nostra connessione vitale con la realtà, con gli altri, nel bene e nel male: temo quando quel che mi interessa è in pericolo, spero quando penso di poter ottenere quel che mi interessa; gioisco quando l’ho ottenuto, mi arrabbio contro chi minaccia i miei interessi, soffro se riesce a danneggiarmi…
La categoria dell’interesse investe tutto: dalla salute alla famiglia, dal conto in banca agli ideali. Eliminare l’interesse significa eliminare la vita: una pretesa irragionevole; peggio, letale. Per questo non si può ridurre la politica al calcolo di un logaritmo che assegni a ciascuno il suo, senza produrre, contestualmente, lo spegnimento dell’uomo.
La manipolazione del disinteresse fa presa su di noi per le ragioni dette, ma anche per una ragione molto più profonda. Tutti sappiamo, in fondo, che i nostri interessi ci prendono molto. E oggi basta questo per farci sentire in colpa. Ma sappiamo anche, per esperienza vera, che gli interessi e le emozioni che ne nascono sono, a volte, talmente forti da farci sragionare. Passione, collera, avidità, paura… ognuno di noi sperimenta che l’interesse è talvolta fonte di accecamento e che spesso risulta faticoso rimettere ogni cosa al suo posto per agire in modo ragionevole. Insomma ci troviamo continuamente in bilico tra l’accecamento dovuto alla parzialità (quando teniamo “troppo” a qualcosa e il nostro agire diventa per questo irragionevole) e l’accecamento del non voler guardare (quando temiamo di essere parziali, quindi ci asteniamo dall’entrare nel merito delle questioni e cerchiamo di essere disinteressati, “puramente razionali”).
Grande rappresentante storico di questo ideale è Maximilien de Robespierre, l’incorruttibile appunto. Paladino di un ideale di uguaglianza fin dall’inizio incompatibile con qualsisi genere di libertà e di fraternità: in effetti il partito degli onesti assume ben presto il ruolo − morale − di eliminare fisicamente chi non aderisce totalmente all’unico partito del popolo.
L’educazione all’interesse e l’educazione dell’interesse oggi sono essenziali, e la vera educazione retorica è questa: infatti comunichiamo con gli altri per condividere i nostri interessi e per agire insieme in vista di interessi comuni. Abbiamo bisogno di educare persone capaci di tenere in primo luogo a se stesse, ambiziose e appassionate. L’azione congiunta di un soggetto con altri, nell’azione politica come negli altri ambiti della vita, richiede proprio l’esercizio di una sana retorica intesa come capacità di mostrare attraverso le parole un progetto, interessante e desiderabile, e la via più ragionevole per realizzarlo.