Da sempre la visione del cielo è per l’uomo specchio del suo destino, immagine di qualcosa che sfugge, o che lo attende, come il risuono di una promessa. Il saggio di Umberto Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, uscito per Feltrinelli, mostra, fin dal titolo, la contraddizione di una religione incapace di abbracciare il tutto della vita. Se il sacro è intriso insieme di fascino e terrore, gioia e paura, rispecchiando la complessità e l’ambiguità della vita, il cristianesimo ha trasformato Dio in solo bene, in sola giustizia. “Il cristianesimo ha desacralizzato il sacro”, spiega Galimberti. “Che importerebbe un Dio che non conoscesse né ira, né vendetta, né invidia, né scherno, né astuzia, né azioni violente… un Dio simile non lo si comprenderebbe, a quale scopo dovremmo averlo?”, si chiedeva già Nietzsche. Togliendo a Dio la responsabilità del male, il cristianesimo l’ha rimpoverito, ridotto, violentato, rendendolo incapace di riempire il cielo della storia. Quel cielo che prima era immagine e interrogativo. Così, prosegue Galimberti, “smarrite le tracce del sacro, attenuata con l’incarnazione la trascendenza di Dio, il cristianesimo si è ridotto ad agenzia etica”.
A quasi vent’anni dalla morte di Giovanni Testori (1923-1993), un suo libro, violentissimo, estremo, si inserisce, ferendo e lacerando, nella questione lanciata da Galimberti. In Exitu è la storia di un giovane diseredato della periferia milanese, omosessuale, che, per pagarsi la droga, decide di prostituirsi. Un monologo ininterrotto, un grido senza speranza, una fatalità totalmente desacralizzata. La tragedia si consuma alla stazione centrale di Milano, nel momento cruciale dell’overdose. E, tuttavia, è una tragedia senza senso, senza scampo, quella cui la cultura che ha prodotto Riboldi Gino (la città, la Milano che annulla e cancella qualsiasi sguardo sul dolore più acuto, sulla sofferenza senza risposta) l’ha portato e gettato, in agonia, sul pavimento di una stazione, nell’indifferenza della notte (“Lì, è. Lui (nessuno). Lì fu. Lui (nessuno). Lì era. Lui (nessuno). Lì sarà. Lui (nessuno)” è l’inizio del libro).
Priva anche di un linguaggio, che si frantuma e rompe, si spezza nell’impasto e nel vortice linguistico di Testori, la confessione-grido del Riboldi nasce ancorata alle regioni più profonde e buie dell’animo umano, e del suo dolore. Dentro una ferita che non può essere espressa, se non balbettata, gridata per frammenti. Nel delirio, nella Via Crucis del Riboldi, i ricordi si annebbiano, confondendosi nella bestemmia di chi è perso, solo, pochi istanti prima dell’abbandono. Nel cesso della stazione. Fin quando, nella miseria più infima, nel vomito, sul vicì, il protagonista vede le braccia, le mani del Cristo sorreggerlo. Emergere dentro lo sporco, dentro i buchi delle sue ferite, per abbracciarlo. Una luce salvifica nella più bassa concretezza della materia.
Nell’affollarsi di ricordi e visioni, ritorna la maestra dell’infanzia, la “signora maes”, giudice e tribunale di vita (e di fede) che, insorgendo, obietta: “Di che fede, di che Gesù vuol parlare lei, lei, che, di sua volontà, e solo per prepararsi a un sicuro e meritato suicidio, si vende a destra e a manca?”. Ecco la grande riduzione del Divino ad “agenzia etica”. Ma, quella del Riboldi, è una redenzione nella disperazione, nel lamento di chi, anche solo per bestemmiarLo, Lo ha invocato. La venuta e l’incarnazione del Cristo nel frammento (e la lingua di Testori ne è testimonianza, immagine reale e viva) più sporco e perduto. Dentro quel male che Galimberti ha separato da Dio.
Sortì fuori. Fuori venne. Per ciappàrmi. Sortìron, anzi. Ricordo no. Perchè ‘des. ‘Des che lu el cunta, finit’è. Finit’è. Et per semper. Sortìron, ecco, le di lui. Le di lui mani, sì! V’eran due. Sui palmi. Buchi due. V’eran. El m’ha ciappà in di! El m’ha ciappà in di! In di so brasch, mamma! El m’ha ciappà in di! Lu! Lu! Il mà prì dan! Dan sé brà il mà! Il mà! Anca se io son ‘pena ‘rivato a dirci: ti faccio schifo no? Merito no che te tiri l’acqua e vada giù con la merda? Ma i suoi bracci! I so! I so! I so! E i dida! I so! I so! Mi stringevan su, mamma! Mi stringevan su, papà! Fu, ecco, fu. Come quando, fu. La prima volta. In la gièsa. D’Annò in. La prima volta che. Dervii che. I làber. Per ciappàl in la. In la bucca in. Lu! El Crist de tucch i assassìn, de tucch i vacch che sèm! Ma ‘des. ‘Des che eva la dernièr. ‘Des, lu. Tucch i àlter volt cunt i usèi! ‘Des lu i a scassàva! Tucch! Eren i so làber, eren! Eren i so! I so eren che ciappàvano didentro di loro me! Di dentro di loro me! Me ego, ciappàvano! Me ego, papà! Me ego, mamma!
Le braccia e le mani del Cristo, emergendo dalla ferita tutta carnale del Riboldi, lo sorreggono, lo sostengono in quel grido finale, ultimo. Una lacerazione del corpo, dell’essere fisico e biologico, nella cui bassezza e miseria Cristo accetta di incarnarsi, ripercorrendo anche la propria Via Crucis, il proprio calvario. E’ un dolore fattosi coscienza, e cioè peccato, quello del Riboldi, dentro cui il suo “Gesuìno” spalanca le braccia. Ribaltandosi la domanda di Nietzsche sulla utilità di un Dio che è solo bene, non viene che da chiedersi (o esclamare): non è forse più vero un Dio che, essendo amore e perdono, accade nel male umano? Una sorta di luce, l’indomani mattina, avvolgeva il corpo del Riboldi. Mentre il cielo della storia era stato riempito. E non si poteva più ritenere notte.
Quanti, l’indomani, s’affrettarono per primi ai treni, lo videro. Coperta d’un lenzuolo bianco, la barella, su cui era stato deposto, attraversò, infatti, l’intera stazione. Alcuni chiesero e seppero. Altri andaron oltre. Tutti, però, al passaggio, scorsero una sorta di luce che, lentissimamente, andava formandosi sopra il cadavere e pareva vincere il grigior delle volte e il buio di ciò che, di là da esse, risultava improprio definir alba, benchè neppur possibile fosse ritener notte.