Sapete qual è la percentuale di italiani che non ha mai messo piede in un museo? Sono quasi il 58 per cento. È una cifra frutto di elaborazioni realizzate da Fondazione Cittaitalia, incrociando i dati di altri istituti di ricerche, dal Censis all’Istat. È una cifra impressionante che rivela come in Italia il problema della cultura oltre che la scarsezza di fondi sia l’incapacità di incontrare la domanda di milioni di cittadini. Il problema è serio e riguarda in grado uguale pubblico e privato: la crescita del livello di istruzione che ha accompagnato la storia dell’Italia negli ultimi 50 anni non ha avuto come conseguenza un parallelo aumento dei consumi di cultura. Se un tempo tanti antenati che non sapevano leggere, sapevano però declamare pezzi di Divina Commedia a memoria, oggi nessuno saprebbe più chi sia Dante, se non fosse per Benigni e per la martellante pubblicità di un gestore telefonico…
Più l’istruzione media cresceva, più la cultura diventava fatto per un circolo chiuso di una minoranza. Non so se vi sia mai capitato di comperare il giornale la domenica in un autogrill. Dove c’è la pila del Corriere della Sera, vedrete montagne di inserti culturali (La Lettura) che la gente neanche prende su: e stiamo parlando di un pubblico già acculturato, come può essere il lettore di quotidiano.
Perché tutto questo è accaduto? La risposta è molto semplice: perché la cultura non è più un fatto che sappia stabilire nessi stringenti con la vita. Non riesce più ad esser fatto di popolo, come lo era stata in tanti periodi della nostra storia. Forse perché il popolo non c’è più, o forse perché non lo si sa più auscultare. Per capirci: nell’Italia del dopoguerra milioni affollavano i cinema per vedere Rossellini, De Sica, Pasolini e Fellini. Uomini di cultura che sapevano raccogliere le attese della gente, che sapevano parlare a tutti, senza far sconti sulla qualità e sull’“altezza” dei loro lavori. La cultura sapeva comunicare energia, sapeva commuovere e trainare, senza distinzioni di ceti né di livello di istruzione.
Oggi più la cultura presume di avere chiavi interpretative della realtà, e più è estranea da chi nella realtà vive. Siamo di fronte a qualcosa che sembra una nuova arcadia socialmente e politicamente corretta, ma che pur sempre arcadia resta e che si autolegittima sulla base di una presunzione intellettuale e di una superiorità etica.
Tempo fa mi è capitato di partecipare ad un convegno che aveva a tema proprio la fruizione di musei e mostre, organizzato dall’Assessorato alla cultura di Milano.
Tra gli invitati c’era Enrica Pagella, direttrice di palazzo Madama, splendido museo comunale di Torino; quindi una funzionaria pubblica da cui ci si poteva aspettare la legittima geremiade sulla mancanza di mezzi e di risorse. Invece lei ha ribaltato coraggiosamente la prospettiva, dicendo che il compito di chi occupa posti come il suo è quello di «farsi attraversare dalla domanda del pubblico». Farsi attraversare vuol dire indagarla, conoscerla e saperla interpretare provando a fornire così delle risposte che rappresentino anche un salto di qualità rispetto alla domanda stessa.
Mi sembra una formula molto chiara e coraggiosa, che costringe ad uscire dall’angolo “sicuro” dello specialismo, obbliga a immaginare soluzioni nuove e coraggiose che stimolino il pubblico ad un percorso di crescita e consapevolezza. I numeri del sistema museale torinese dicono che questo coraggio viene ampiamente premiato.
Il problema della cultura in Italia non è innanzitutto un problema di risorse, ma di incapacità ad allargare il proprio raggio. Di incapacità di concepirsi come bene comune, e quindi bene di tutti. Giustamente ci si preoccupa dei grandi problemi di conservazione che un patrimonio come quello italiano deve quotidianamente affrontare. Ma oggi questo problema è ingigantito dall’indifferenza con cui le persone guardano a quel patrimonio, senza rendersi conto che quella è ricchezza anche loro. Non ci saranno mai soldi e mai mezzi abbastanza per gestire e custodire un patrimonio come questo; non ci sarà mai ministero in grado di gestirlo se insieme non scatta una consapevolezza diffusa e un senso di corresponsabilità. Cioè se non si torna a guardare alla cultura nel senso pieno del termine.