Secondo di due articoli dedicati dall’autore all’antipolitica. Leggi qui il primo articolo.
Questa prospettiva di collocazione del movimento di Grillo all’interno del contesto “postdemocratico” europeo consente, quindi, di valorizzare innanzitutto questo fenomeno per quello che è: non è esso stesso l’origine o l’invenzione dell’“antipolitica”, ma sfrutta un clima di antipolitica creatosi dall’evoluzione della “postdemocrazia”, ossia dallo svuotamento delle nostre istituzioni politiche. Questa antipolitica, che inizialmente era stata prodotta da determinati meccanismi politici, ora viene riportata al livello politico; un classico boomerang con il quale gli attuali partiti devono fare i conti. E, difatti, nel momento in cui la democrazia viene scavata dal di dentro, ossia quando le elezioni politiche e le forme di partecipazione politica diventano puri momenti formali che non trasmettono più quello che devono garantire, ossia l’“essere politico” del cittadino (secondo Aristotele, l’uomo è un “essere politico” ossia destinato a realizzarsi con gli altri in rapporti pubblici e caratterizzati dal bene comune), i potenziali democratici si cercano altre vie di espressione.
Siccome all’interno dei partiti istituzionali sono spesso le strutture di potere stesso a causare questi fenomeni postdemocratici, gli stessi partiti si dimostrano solo molto limitatamente in grado di accogliere queste nuove tendenze. Nel momento in cui queste tendenze riescono ad esprimersi tramite strutture alternative, come i “Pirati” o M5S, allora essi trascinano anche quelli che si trovavano solo “passivamente” negli altri partiti (anche questo una forma di “antipolitica”) oppure quelli che hanno voltato completamente le spalle alla democrazia.
Riportando, ora, questa situazione “antipolitica” alla vera fonte, questi movimenti la trasformano in “antipartitismo” rifiutando il vecchio schema tra “destra” e “sinistra”: ed è in questo senso quindi che si autodefiniscono spesso come “antipolitici” – “anti” inteso non nel senso che non avrebbero attinenza alla politica, ma che si contrappongono a ciò che finora abbiamo inteso in Europa, almeno nell’ultimo secolo, come “democrazia”. Ma nei fatti si tratta dell’esatto opposto dell’“antidemocrazia” – concetto inteso come insulto da parte dei partiti e come espressione del potenziale rivoluzionario da parte dei movimenti stessi –, quindi di una realtà politica: anche se non rientra in quei paradigmi in cui la politica si è istituzionalizzata negli ultimi decenni. Fin quando si usa questo concetto per caratterizzare questi movimenti, i partiti tradizionali non saranno mai in grado di farsi sfidare ed imparare da quel che alla fine è una conseguenza dei loro propri limiti politici.
Se quindi non risulta giustificata la netta identificazione di questi movimenti con la “antipolitica”, sembra ugualmente esagerato chiamarli “primavera europea”, come di fatto è già avvenuto – anche se con quella araba non ha altro in comune che il nome e l’uso dei nuovi media, soprattutto internet. Senz’altro, alcuni motivi proposti dai nuovi movimenti europei possono sicuramente contribuire ad una “rinascita” della democrazia – qualora presi sul serio dai partiti tradizionali –, come le pretese di più trasparenza e la limitazione dei mandati politici.
Ma il motivo più evidente che induce a relativizzare anche questi movimenti sta proprio nella mancanza di una visione del “bene comune”, che si esprime nelle nostre società anche attraverso le strutture della democrazia e dello Stato di diritto. Il “bene comune”, infatti, non è semplicemente la somma degli interessi individuali delle persone, ma riguarda la progettualità comune di una nazione con la quale tutti, al limite, si potrebbero identificare: quindi, quando si fa politica, non si tratta soltanto di dar voce a meri interessi di un gruppo di persone o di guardare alla protesta di una certa “clientela”, ma di realizzare lo sforzo ad integrare queste proteste e questi interessi legittimi in una visione comune sui diritti, valori e doveri portanti della società. Appunto questa dimensione manca al movimento di Beppe Grillo, come anche ai “Pirati”.
Infatti, un motivo importante su cui convergono entrambi, il M5S e i “Pirati”, è quello di affrontare qualsiasi discorso politico esclusivamente nei termini di “interesse”: mentre gli ultimi nascono per la difesa degli interessi privati su internet e intendono realizzare nuove strutture di democrazia diretta per una maggiore considerazione degli interessi di ogni individuo nel processo politico, i primi esprimono la loro protesta e qualche singolare interesse attraverso la voce carismatica del loro leader. Qualsiasi discorso – contro l’Europa e l’euro, per la pubblicizzazione delle leggi prima dell’approvazione, per la gratuità della rete, e soprattutto contro le politiche concrete e contro i partiti – parte da una prospettiva radicale di “interesse”.
Questo cambiamento di prospettiva viene venduto, infatti, come unica possibilità di una vera, “radicale” democratizzazione in cui finalmente contano gli “interessi” di tutti a tutti i livelli. Ed in effetti, tutti gli slogan che celebrano questa idea vengono percepiti dalla popolazione come una “primavera” in quanto a tanti cittadini per molto tempo è sembrato che i loro interessi non venissero per nulla considerati dalla politica, mentre anzi la politica appariva come una realizzazione di interessi particolari di quelli chiamati da Grillo “la casta”. In realtà, quindi, troviamo anche qui una conferma del fatto che il M5S, che sembra realizzare l’antipolitica, è semplicemente una conseguenza di una situazione antipolitica già creatasi in precedenza: se la politica si riduce ad una lotta tra “interessi”, fondamentalmente regna già l’antipolitica.
Certamente, il M5S non vuole intraprendere nessuno sforzo per riportare ad un equilibrio tale situazione, sfruttando al contrario l’antipolitica, e in questa maniera la radicalizza. Ma quale sarebbe a questo punto la riflessione giusta da fare? La politica, per quanto ricorre legittimamente ad interessi ed ha a che fare con la rappresentazione degli interessi, non si riduce comunque ad essi. E soprattutto non approfitta dalla dimensione “egoistica” di tali interessi, cioè di quella dimensione che mette a rischio il “bene comune” e l’importanza delle istituzioni.
Infatti, per una politica seria si tratta di integrare questi interessi, pur nei loro contrasti fino ad un certo punto legittimi, nella dimensione del “bene comune”; che si rivela quindi la vera dimensione sacrificata dalla “postdemocrazia” come anche dall’“antidemocrazia”. Ma senza la dimensione del bene comune non si afferma più lo Stato di diritto come unico vero garante della libertà umana: perché è la dimensione della giustizia costituzionale che oltrepassa davvero la dimensione del mero interesse che si scarica nelle lotte anarchiche.
Per garantire il rispetto della dimensione del diritto ci vuole, però, una leadership che non è carismatica, bensì basata sulla legalità dell’ordinamento e sull’etica della responsabilità dei suoi leader. Cosa significa questo? Max Weber analizza dapprima il potere carismatico, il quale dipende tutto dalla statura del leader che non ammette nessun giudizio sulle sue azioni e sulle sue scelte. Uno dei primi effetti che ne deriva è senz’altro una de-istituzionalizzazione della realtà politica e una riduzione dei processi controversi e discorsivi della cultura politica. È degno di interesse notare che sono questi i fenomeni che accumunano Berlusconi e Grillo: non il banale fatto che si tratta di “comici” – e questa analogia veramente non fa più ridere nessuno –, ma lo stile della loro leadership. Non a caso non mancano le critiche a Grillo all’interno del proprio movimento nonché da parte dei “Pirati” europei, secondo i quali egli attuerebbe uno stile troppo carismatico e quindi di leadership personale. In questa maniera, Berlusconi e Grillo svuotano le istituzioni politiche della loro funzione di “bene comune”, e riducono la politica ad un risultato dei loro interessi con i quali si identificano poi i loro seguaci.
Invece una politica attenta al bene comune, quindi alle istituzioni democratiche, esige leader che agiscono, sempre secondo la dizione di Weber, seguendo l’«etica della responsabilità» da esercitare con «dedizione appassionata» e «lungimiranza»: ciò significa badare piuttosto che ai propri fini o interessi alle conseguenze che determinate scelte comportano per la respublica in quanto tale e nel suo assetto istituzionale e costituzionale. Per tale compito è richiesto, senz’altro, una certa distanza personale del politico da ciò che è la sua «professione», per non identificare i suoi interessi personali (e spesso autoreferenziali) con la “causa comune”. Infatti dice Weber: «l’uomo politico deve dominare in se stesso, ogni giorno e ogni ora, un nemico del tutto banale e fin troppo umano: la vanità comune a tutti, la nemica mortale di ogni dedizione a una causa e di ogni distanza e, in questo caso, della distanza verso se stessi». È qui, in altre parole, dal mancato rispetto di questo tratto fondamentale di etica politica, che nasce l’antipolitica. E non a caso vediamo identificarsi proprio qui l’errore fondamentale sia di Berlusconi sia di Grillo.
Dal punto di vista dell’etica politica sarebbe fatale, da parte dei partiti tradizionali, aspettare semplicemente la prima crisi di questi movimenti, come di fatto è accaduto in Germania, in cui i “Pirati” sono scesi, dopo pochi mesi di litigi interni, al di sotto dei 5 per cento. Piuttosto converrebbe intraprendere la strada difficile di una ridemocratizzazione delle strutture partitiche stesse, attraverso l’integrazione di nuove strutture di partecipazione politica: i programmi dei partiti come la scelta dei candidati dovrebbero di nuovo essere determinati dalla base, ci vorrebbe più trasparenza nelle spese e nei processi decisionali all’interno dei partiti, e si dovrebbero introdurre più meccanismi, anche via internet, di democrazia diretta. Contemporaneamente, gli stessi partiti dovrebbero impegnarsi di più nella formazione culturale-politica dei propri funzionari, del proprio elettorato come anche della società in quanto tale, perché il senso del “bene comune” si forgia soltanto attraverso un’educazione etico-politica duratura.
Per il futuro dei partiti e della democrazia non esiste nessuna alternativa a questo compito. E quale occasione migliore della fine del “governo tecnico” e delle elezioni nazionali nell’anno prossimo?
(2 − fine)