Testori non nasce poeta. Si può dire, invece, per un felice paradosso, che Testori rinasce poeta: e questo per le particolari circostanze con cui lo scrittore lombardo incontra, quasi per sbaglio, per grazia, le insurrezioni della poesia. La poesia di Testori si pone infatti come il segno eclatante di una vita che rinasce, una vita che letteralmente torna ad esplodere. Nel 1960, Testori era finito al centro di un pubblico scandalo legato alla presunta oscenità di un suo testo teatrale, L’Arialda; ma soprattutto, il 1960 era stato l’inizio di un violento sprofondamento depressivo, che culminò in almeno un tentativo di suicidio. La crisi dura con alterne vicende per qualche anno: fino al 1965 Testori non scrive quasi nulla, se non critica d’arte. Ma questi sono anche gli anni dell’amoroso rapporto con Alain Toubas, ragazzo francese a cui Testori fu sempre estremamente legato.
Sono anni, quindi, di buio e di dolore, ma anche di insurrezione, di inesausto dibattimento vitale. Da quegli anni Testori emerge con un’opera di poesia: un’opera esaltante, scatenata, barocca, lunghissima, fuori da ogni scuola e da ogni moda, fuori da ogni convenzione: ridondante e secentesca, esagerata e sempre sul filo dell’eloquio retorico, disperata, sentimentale, violenta: I Trionfi, che escono per Feltrinelli nel 1965. Non deve meravigliare perciò, se, in quella totale e ingenua spregiudicatezza il libro non trovasse grande accoglienza da parte della critica importante. Così ne disse Testori stesso:
Parlare di te, ‘mia città, mia patria’. Cito, impudentemente, da I Trionfi, che son stati piuttosto una catastrofe; e sui quali generalissimo fu il silenzio. Non erano entro alcun registro. (…) Registravano troppo il cuore; e i suoi disperati movimenti; di quand’uno vede degli occhi, quelli; vede l’oro di certi capelli; i suoi sì, i suoi; e così gli va via la testa… A te, lettore, tutto questo, o il simile, mai è accaduto che accadesse?
«Registravano troppo il cuore», afferma Testori, e individua così la natura profonda di quel piccolo scandalo che furono appunto i Trionfi: la testimonianza di una risurrezione, il canto di un cuore recuperato alla propria morte, riconsacrato alla tenerezza del mondo e della vita: è l’esaltante documento di una vittoria, di un trionfo, appunto:
Ed ecco, oggi so;
saprò,
da qui a qualche istante;
anzi, ho appena saputo
subito dopo che da Saint-Sulpice
cadesse, di bronzo, il mezzodì di gloria
e un volo di colombi, strepitando,
battesse contro i vetri.
Sì, so
e saprò
per oggi, per domani, per sempre:
una luce esiste,
anche se folgora, brucia, incenerisce e uccide.
(II, 19)
Non è un caso che I Trionfi si aprano, già quasi nei primi versi, con un appello accorato ad una «eternità, / vittoria sulla morte, / che tutti non aspettano fuori che noi…» lì dove il «noi» è sì il riferimento ad un preciso rapporto, ad una precisa situazione personale, ma fissa anche una sigla teoretica: il «noi» è il luogo privilegiato per l’accadimento dell’eternità, il «noi» – ovvero, sembra dire Testori, l’esperienza amorosa, quell’esperienza d’amore che non è tale se non trova una definizione più piena nei termini della «carità» – è la possibilità che l’io stesso emerga in tutta la sua insaziabile sproporzione, nella sua vertigine: «O sete, / sete infinita d’una luce / che mai riuscirò qui a esprimere». «Appena ti vedo mi sorprendo / come se fossi della vita / al primo giorno»: all’interno di un rapporto la vita risorge. E la poesia diventa il “foglio di via” di questa ripartenza:
Quando tutto
sembra di già perduto
allora tutto
può di nuovo cominciare,
se chiudi gli occhi
e dici:
“è passato;
siamo rinati
di là dalla tentata morte
nel letto della nostra grande,
cristiana umiliazione”.
(da L’amore, XXXIV)
Ma è un’umiliazione che restituisce la vita alla sua strada, alla sua freschezza, un’umiliazione che fa dire – in un’altra poesia della raccolta A te – : «Vivere senza te non posso più… / – mi hai sussurrato – / Perdonami, mio pastore disperato, / anche lasciandoti / t’ho amato». O ancora, ne L’amore: «Io a te mi stringo, / alle tue ossa / vinte dalla tristezza / per cui sei ciò che mi sei, / eternità nel nulla, / nel presente, luce».
Di un’altra situazione la poesia di Testori è stato il luogo precipuo e privilegiato: come per Giorgio Caproni, infatti, la poesia di Testori è stata la sede della rissa con Dio, di un inesauribile corpo a corpo con la figura di Cristo. Nel caso di Testori la rissa si spinge fino alla bestemmia, alla sconsacrazione più offensiva e deturpante, nel tentativo di sfregiare quel Cristo che, nel corso degli anni, si era piantato nella vita con una forza e un’instancabilità tale da risultargli ossessivo, irreparabile, prepotente. La bestemmia di Testori risulta quindi una sorta di messa alla prova, di verifica di quanto possa resistere il volto di Cristo allo sputo e alla sfida – quanto sia capace di permanere intatto, quanto quel Volto rimanga irriducibile al suo gesto distruttivo: «Chi ha distrutto la mia pace / sei stato Tu, / la Tua falsità. // Avessi creduto anch’io / all’inumana omertà / avrei accettato la Tua incarnazione, / questa vile, idiota, / sanguinante delazione», o ancora: «M’aspetti nel buio / come un’affamata prostituta, / come un ladro m’azzanni / nei riposi difficili e ansiosi».
Il rapporto con Cristo si declina quindi in tante, innumerevoli forme: provocazione («Sarò me stesso, / sarò vero, / sarò presente, / quando Tu come Dio / sarai per sempre assente»), sfida («Non ha salvato la storia / la Tua deità. // T’illudi forse di poter salvare / con la Tua umanità / la vegetante bestia / della nostra omertà?»), contestazione («Dovevi essere il Dio vero, / il Dio liberante e liberatore. // Sei diventato il Dio schiavo, / il Dio amante, il Dio traditore»), disperazione («Nessun maschio, / nessuna donna, nessuna prostituta / m’ha inseguito così. // Sei rimasto fermo allo stesso punto. / Ti credevo perduto: eri lì»), disprezzo addirittura («Di Te sento solo pietà. // Sei un Dio che per avermi / s’è fatto morte, sangue, / viltà»), senso di scandalo, anche: «La bocca, / la saliva, / il sangue così triste / che m’hai dato… / La ferita sul costato, / il segno come il suo delicato / che alla madre T’aveva legato… // Perché non sei restato soltanto Grazia? / Perché sei diventato anche Peccato?». Ma il Cristo ingiuriato da Testori è un Cristo che resiste irriducibile a ogni attacco; è un Dio presente e addirittura invadente, che Testori sente avanzare nella vita, scomodo addirittura: «Ti sei intromessa / tra il suo bacio ed il mio / orrenda lingua di Dio».
Nel tuo sangue è per l’appunto il luogo di quest’agone disperato, disperante, e tuttavia ardente di una presenza innegabile, desiderata più d’ogni cosa: motore della poesia è l’urgenza che quel Cristo si faccia avanti, diventi ancora più esplicito e più vivo, s’impasti sempre di più con la vita: «Ma Tu non parli, / non dici. // Sei il Dio sordo; / il Dio muto. / Per illuderci di poterTi parlare / Ti sei dovuto incarnare». Ed è proprio qui il nocciolo dello “scandalo” testoriano: non il Dio in sé, ma il Dio-incarnazione, il suo gesto totale verso l’uomo, il Suo Mistero fattosi scandalosamente, incredibilmente vicino. E che lo rende un punto di non ritorno della propria storia personale, un punto imprescindibile di riposizionamento continuo: una presenza con cui lottare.
Per questo la poesia di Nel tuo sangue si spiega forse meglio alla luce di uno dei suoi frammenti, in cui Testori, rivolgendosi – ancora – a Cristo, dice e afferma – non senza un’ombra di adolescenziale ironia: «T’ho amato con pietà, / con furia T’ho adorato. / T’ho violato, sconciato, / bestemmiato. // Tutto puoi dire di me / tranne che T’ho evitato».