Da dove inizia Firenze? Inizia da una piazza depressa e dimenticata, a poche centinaia di metri dal centro ingolfato dal turismo di massa; una piazza che dopo le nove di sera è frequentata solo da qualche homeless che cerca rifugio sotto i portici e a volte per scaldarsi accende un falò. Sembra un’immagine tratta da La Strada, l’ultimo apocalittico romanzo di Cormac Mc Carthy. Invece è un’immagine catturata dal vero da Luca Doninelli per il suo nuovo libro Salviamo Firenze (Bompiani, 124 pp.). La piazza in questione è Piazza Santissima Annunziata, su cui s’affaccia lo Sspedale degli Innocenti, prima grande opera firmata da Filippo Brunelleschi nel 1419 e quindi “atto di nascita”, scrive Doninelli, «del movimento artistico più importante di tutta la storia: il Rinascimento».
La parola nascita è quanto mai appropriata, perché quell’edificio per il quale Brunelleschi disegnò un meraviglioso portico che divenne parametro per tutti gli architetti del mondo, era destinato ad accogliere gli orfani o i trovatelli. Oggi la condizione di quella piazza è l’emblema della grande amnesia di cui oggi è affetta Firenze, città travolta dai flussi del turismo globale, una «città che sta morendo, sgretolata dalla merda dei piccioni». E ci appare «completamente disperata, incapace di progettarsi tanto rispetto al futuro quanto al passato».
Il libro di Doninelli funziona come una terapia d’urto, tanto duro nella diagnosi quanto provocatorio nelle proposte (trasferire il David di Michelangelo, capolavoro ridotto a feticcio, fonte di degrado per gli assembramenti che genera). Ma è soprattutto un atto d’amore verso la città che per parte di madre è anche la “sua” città: così Doninelli gioca il proprio sguardo e la propria scrittura per il riscatto di Firenze. Potremmo chiamarlo un atto di vera letteratura civile, in cui l’autore non si chiama fuori dal gioco, non si limita al j’accuse per lo stato di degrado ma rischia di suo, indicando una strada.
Solo chi ama l’oggetto delle proprie indagini alla fine sviluppa vera conoscenza. Accade così che leggendo il libro di Doninelli si abbia l’opportunità di conoscere davvero Firenze, che non è città qualunque ma è quella città in cui ad un certo punto accadde un “absolute beginning”, «per cui un gruppo di ragazzi seppe invertire il cammino del mondo».
Quei ragazzi avevano i nomi di Masaccio, Donatello, Ghiberti e ovviamente Brunelleschi. La loro non è un’avventura relegabile ad una pur grande stagione storica, ma è un qualcosa che ha segnato in modo definitivo il destino di Firenze: ed oggi Firenze è come se avesse paura a guardare in faccia o dentro se stessa. «Ha esiliato il Rinascimento», ha scritto Doninelli, «ha allontanato da sé lo scandalo di chi non può quietarsi per quello che ha già fatto, l’irrequietezza di chi è nato dall’innovazione e ad essa è legato per sempre, come Prometeo alla rupe».
C’è quindi da riscoprire il senso di quella novità che ancora pulsa nelle fibre di Firenze: è il lato più affascinante di questo libro, che facendoci aprire lo sguardo su ciò che il passato ha disseminato, con una ricchezza mai vista, in quel chilometro quadrato attorno all’Arno, ce lo fa sentire non solo affascinante, ma assolutamente presente. Prendiamo le pagine dedicate alla Cupola del Duomo, il capolavoro di Brunelleschi che si innalza nelle sue forme radicalmente nuove, ma capaci di abbracciare il passato medievale della città, con quel suo movimento doppio verso l’alto e verso il basso, per cui noi «pur trovandoci fuori di essa, siamo al tempo al suo interno».
È un Rinascimento che rifiuta l’idea di isolarsi, di esibire la propria grandezza rispetto al contesto, ma è «in perenne conversazione con il mondo». Ma ciò che in quel momento della storia riguardò concretamente Firenze, in realtà è qualcosa che poi ha riguardato tutta la storia del mondo, senza neanche confini di civiltà, scrive Doninelli. Per questo il libro, partendo dalla circostanza di una figliolanza dell’autore rispetto a quella città, poi allarga il raggio al mondo.
Firenze è come un epicentro, un punto sorgivo di una visione del mondo che allaccia in un’unica storia la spericolatezza necessaria dell’innovazione all’ampiezza di cuore necessaria per l’accoglienza e per l’abbraccio dell’altro. Firenze, e in particolare quella piazza dimenticata da cui tutto è partito, ha dimostrato che è una simbiosi praticabile e possibile.