E sac de nùs in tentasiùn. Magari è una leggenda, magari non è vero niente, ma pare che una volta, quando la Messa era in latino e durante la Messa le pie donne recitavano il Rosario, la più controversa fra le invocazioni del Padre Nostro (et ne nos inducas in tentationem) si trasformasse in una faccenda di noci da stipare nei sacchi in vista dell’inverno. Che pure in mezzo a quel nonsense la consapevolezza della tentazione sopravvivesse fino a risplendere come una gemma oscura, è argomento che potrebbe essere utilmente dibattuto da teologi e antropologi. Qui l’aneddoto serve a ricordare come nella provincia italiana il Concilio Vaticano II si sia manifestato anzitutto mediante la rivoluzione della riforma liturgica.



Provincia italiana, si diceva. Ma sarebbe più corretto parlare della grande provincia che è l’Italia e che tale rimane in tante sacche di resistenza pure nelle aree metropolitane. È così ancora adesso, così era a maggior ragione mezzo secolo fa, mentre il Paese viveva processi di inurbamento tumultuosi e vistosamente imperfetti, tali da giustificare l’invettiva pasoliniana sulla «modernizzazione senza sviluppo». Da un certo punto di vista, l’Italia dell’ultimo secolo è sempre rimasta una realtà anteriore: non necessariamente nostalgica, e anzi smaniosa di liberarsi del suo passato contadino, perfino a costo di sostituire il paesaggio vasto della campagna con gli orizzonti angusti di un condominio piccolo-borghese.



L’immagine più eloquente di questo intreccio vertiginoso è fornita dalle testimonianze che una troupe della Rai raccoglie fuori da una chiesa nella domenica in cui, per la prima volta, si celebra il rito eucaristico in lingua italiana. La scena è in una grande città del Nord, probabilmente Milano, e fra gli intervistati c’è anche un padre di famiglia dal duro accento meridionale, particolarmente entusiasta della novità. Spiega di essersi portato il magnetofono in parrocchia, in modo da registrare la Messa e potersela riascoltare con calma a casa, insieme con i figli (maschi, adolescenti e silenziosi) che annuiscono dal bordo dell’inquadratura, in un atteggiamento più complice che imbarazzato. L’uomo è basso, ingrigito, veste in modo dignitoso e modesto. Non ci vuole molto per riconoscere in lui il tipico operaio salito dal Sud, e cioè l’eroe indiscusso di quella provincia interna senza la quale – ripetiamolo – il nostro Paese sarebbe ancora più difficile da decifrare. 



Concentrarsi sulla riforma liturgica non significa affatto sminuire la portata del Concilio. Significa soltanto ammettere che qui da noi, in una terra che all’epoca si riconosceva naturaliter christiana e andava orgogliosa della sua cattolicità, altri elementi di quell’innovazione destarono forse meno sorpresa. C’erano i preti che non vestivano più da preti, d’accordo, e andavano in giro con i pantaloni e il collarino, tali e quali i “pastori” che si vedevano ogni tanto nei film americani. Ma in sostanza erano ancora i preti di prima, abituati da sempre a declinare il mandato di prossimità anche in termini di un’attenzione sociale che il Vaticano II ha potuto mettere a tema proprio perché già apparteneva alla tradizione e alla sensibilità dei credenti. 

E i laici? Probabilmente il loro ruolo non è stato valorizzato abbastanza nella vasta e tutt’altro che uniforme provincia italiana. La quale, però, è in buona compagnia, se si considera che allo scoccare del cinquantesimo anniversario dell’assise ecumenica la vera trasformazione incompiuta (nel senso, se non altro, di un’attesa che ancora non si è realizzata nella sua interezza) è il riconoscimento del popolo di Dio come popolo sacerdotale. A questo, tra l’altro, allude la disposizione di assemblea e sacerdote stabilita dalla cosiddetta «Messa di Paolo VI», per annunciare la quale don Antonio Brambilla – un estroso prete-pittore ambrosiano, noto con lo pseudonimo di don Abram – aveva affisso sul portone della chiesa un cartello così concepito: «Domenica l’Eucarestia sarà celebrata nel nuovo rito conciliare. Sarà presente l’Autore». 

Una battuta, certo, ma capace di ricordare che fra tanti cambiamenti qualcosa rimaneva immutato, ed era ciò che in fondo veramente importava e importa. C’era il Concilio, c’era il vento nuovo che spirava, ma non per questo la Chiesa cessava di essere la sponsa Christi che generazioni e generazioni di fedeli avevano imparato a conoscere e ad amare. Oggi, a cinquant’anni di distanza, l’Italia che si illude di non essere più provinciale (e che invece non è stata mai tanto imitativa e subalterna) farebbe bene a riscoprire la tenerezza di quella condizione filiale, sintetizzata in modo perfetto da Giovanni XXIII nel celebre discorso della luna e della carezza da portare ai bambini. Gli italiani semplici del 1962 ascoltarono quelle parole e credettero di aver capito tutto del Concilio. Probabilmente non si sbagliavano.