NEW YORK – Nella Grande Mela vige come tutti sanno una costante ricerca del nuovo, e la vita teatrale è un caso pertinente. Una certa stanchezza del teatro di Broadway ha generato il fenomeno da tempo istituzionalizzato del teatro “Off Broadway”, poi una certa stanchezza di quest’ultimo ha dato vita al fenomeno, anch’esso ormai codificato, del teatro “Off Off Broadway” – e queste tre zone di spettacolo coesistono pacificamente ogni sera, arricchendo le possibilità di scelta dello spettatore in quella mecca teatrale che è New York. 



Ma si nota recentemente un nuovo fenomeno, per cui si sarebbe tentati di usare il neologismo “Off Off Off Broadway”: cioè, rappresentazioni teatrali localizzate negli ampi spazi che si stendono sotto tante chiese di New York; e non sono quelli che una volta si chiamavano teatrini parrocchiali: questi gruppi lavorano a livello professionistico. Né si tratta del fenomeno per cui talvolta chiese sconsacrate vengono in seguito adibite a teatri (come è il caso per esempio della ex-chiesa che alloggia il prestigioso “Repertory Theatre” ovvero “Rep” all’Università di Yale a New Haven nel Connecticut). Il fenomeno di cui sto parlando  è quello di eventi teatrali che hanno luogo dentro le viscere, per così dire, di chiese le quali per il resto mantengono le loro normali funzioni. 



Così, nello spazio di poche settimane di inizio autunno, l’amante di teatro che avesse voluto frequentare buoni spettacoli teatrali per prezzi ragionevoli senza allontanarsi da un singolo quartiere di Manhattan (in questo caso, il cosiddetto Upper West Side) avrebbe potuto assistere: alla ripresa di una deliziosa commedia di Marcel Pagnol, Marius, nel sotterraneo della chiesa cattolica di Notre Dame; alla ricostruzione teatrale della rubrica di un giornale newyorchese del primo Novecento i cui protagonisti sono vari piccoli animali, rappresentati in questa versione da suggestive marionette, nel giardino della Cathedral of Saint John the Divine (episcopale); e alla tesi dottorale di un candidato regista nella Scuola artistica dell’Università di Columbia – tesi che consisteva nella messa in scena dell’Antigone di Sofocle, dentro il locale sotterraneo della Riverside Church (battista).



Queste precisazioni sulle varie confessioni religiose valgono solo come indicazione sociologica del variegato paesaggio della religiosità americana, e non intendono certo suggerire l’esistenza di relazioni ideologiche particolari fra gli spettacoli teatrali e le chiese che li ospitano. Gli spettacoli sono completamente laici, e le collocazioni ecclesiali riflettono probabilmente la ricerca di spazi non troppo costosi in una situazione in cui il teatro risente, come tutte le altre forme della vita culturale americana, degli effetti della crisi economica; senza contare che gli affitti possono aiutare anche a far quadrare i bilanci delle chiese in questione. 

Non è una critica − tutt’altro: è una fra le varie manifestazione della fervida atmosfera di pragmatismo e creatività che continua a pervadere il teatro americano (abnegazione di tutti gli attori, energico esercizio dell’immaginazione nella ricerca di fondi, ecc.): un’atmosfera che può ben servire da modello per la situazione teatrale in Italia. Però − però: pur concedendo al realismo operativo tutto lo spazio che esso merita, non sembra possibile assistere a uno spettacolo teatrale in una chiesa senza che questa esperienza abbia un qualche effetto su ciò che avviene dentro e fuori dallo spettacolo stesso − soprattutto, dentro l’animo dello spettatore. Una  delle riflessioni indirettamente suggerite da questa esperienza di recupero delle origini sacre e rituali del teatro è che “Se Atene piange, Sparta non ride”. 

Il teatro americano contemporaneo subisce essenzialmente la stessa crisi di cui soffre il teatro italiano; una crisi per cui l’espressione che più facilmente sorge alla mente, “scarsezza di idee”, appare un po’ troppo astratta, e sarebbe meglio parlare di una crisi spirituale, perché questo aggettivo evoca una mescolanza d’intelletto e di passione. 

Come mai, dopo circa due millenni e mezzo, lo spettatore sente con tanta freschezza, uscendo dal sotterraneo della chiesa dove si è appena conclusa l’azione tragica di Antigone, un turbamento che lo coinvolge tutto? Non basta evocare gli indispensabili elementi dell’erudizione storico-filologica ed estetica, e non basta nemmeno richiamarsi all’innegabile realtà del diretto impatto emotivo (facilitato dagli ottimi attori). Quello di cui si sente più la mancanza − a New York come a Roma e Milano − è il coraggio di cui l’autore/autrice ha bisogno per sviluppare senza il filtro del conformismo ideologico il conflitto psicologico e sociale che ha scelto di mettere in scena.