Già in molti hanno scritto su Medjugorje, negli ormai oltre trent’anni da che sono incominciate le apparizioni, dall’autorevolissimo padre Laurentin a padre Livio di Radio Maria ad Antonio Socci, per non citarne che alcuni; ma quest’ultima fatica di Rino Cammilleri (Medjugorje. Il cammino del cuore, Mondadori, pp. 248) è tutt’altro che un doppione inutile. Soprattutto per il fatto che è il resoconto di uno scettico. Uno scettico cattolico, s’intende, sempre pronto perciò a piegare il proprio pregiudizio davanti all’evidenza dei fatti; ma tutt’altro che incline a facili entusiasmi “religiosi”: “essendo stata, la mia, una conversione «di testa» più che «di cuore» (o di pancia)”, dice di sé, “ero (e sono rimasto) refrattario a tutto quel che sfugge al gelido raziocinio e sa di sentimentalismo. Si badi: non nego che la via che la Provvidenza sceglie per entrare nel cuore di alcuni possa passare per l’emozione e il sentimento. In fondo, siamo fatti anche di sensazioni e non poche conversioni celebri sono partire da un caldo sciogliersi in lacrime. Dico solo che con me non funzionava”.
E, di conseguenza, guarda con occhio disincantato – ma mai malevolo, sempre pronto a riconoscere che Dio si serve di ciò che vuole – a quelli che chiama gli “apparizionisti”: “quelli che si riempiono la casa di oggetti religiosi, che frequentano solo chi è come loro, che leggono soltanto periodici strettamente devozionali, che non sanno né vogliono sapere altro, che adorano sentir parlare dei miracoli di Padre Pio e fanno parte di uno o più gruppi di preghiera. Sanno tutto sulle apparizioni, dovunque si siano manifestate e, se ce n’è qualcuna nuova, sono i primi a saperlo. Un nuovo stigmatizzato compare sulla scena? Il vescovo locale ancora non lo sa ma loro sì. Una ragazzina dice di vedere la Madonna? Eccoli sul posto”.
Anche se, precisa – con l’ironia piena di comprensione per le umane debolezze (un po’ come Manzoni) che è il tono dominante di tutto il libro – “io li chiamo «gli apparizionisti», altri li qualificano bigotti. Ma di solito sono i non praticanti a usare quest’ultima definizione. Ho una certa esperienza di mondo e so che i bigotti li si trova in tutte le religioni, specialmente quelle moderne come l’ambientalismo, il salutismo, il laicismo e l’edonismo. C’è chi fa tre-quattro ore di palestra al giorno in onore del dio Corpo. E chi si sottopone a incredibili umiliazioni per cinque minuti di palcoscenico. Perciò, bigotto per bigotto, preferisco quello che mi dà un bicchiere d’acqua, l’evangelico bicchiere d’acqua, in nome di Cristo”.
Fatte le presentazioni, altrettanto scanzonato è il resto del libro, racconto del pellegrinaggio che Cammilleri fece a Medjugorje nel 1990. Molto concreta è la ragione che lo induce a partire. Anni prima, ha avuto un terribile incidente in auto, cui è scampato per un soffio; da allora patisce un’ansia incontenibile tutte le volte che deve viaggiare, con qualunque mezzo ma specialmente su strada e sotto l’acqua, e dato il suo mestiere di conferenziere è un inconveniente non da poco. Decide così di andare a chiedere la grazia della guarigione da quest’ansia. Già il viaggio è una durissima prova: prima, all’auto su cui è con un amico scoppia una gomma e – sotto la pioggia – finiscono in un fosso; poi, raggiunto in ovvio ritardo il pullman dei pellegrini con cui hanno appuntamento, è anch’esso in ritardo, e la capopullman non manca di sottolineare come nel contrattempo che ha fermato anche la corriera c’è evidentemente un intervento della Madonna.
Giunti a destinazione, si trova davanti lo scenario consueto dei santuari, tanta devozione e tanti piccoli affari che ci girano intorno. Ma anche al commercio di devoti souvenir guarda benevolo: “A differenza di certi, non mi sono mai scandalizzato per il merchandising religioso. Sono convinto (e lo ero anche allora) che, tra le benedizioni che un’apparizione lascia, c’è anche quella di togliere dalla fame i posti in cui avviene”. Del resto, prosegue, “so per esperienza che, di solito, sono i più lontani dal cattolicesimo a voler dare lezioni di cattolicesimo ai cattolici. E sono gli stessi che, magari, si vantano di aver speso una fortuna per procurarsi la chitarra sfondata di Jimi Hendrix o una ciocca di capelli di John Lennon. Forse, in effetti, l’orologio di plastica con sopra la faccia di Padre Pio non sarà il massimo del buon gusto estetico. Ma non so qual gusto estetico ci sia in un teschio umano ricoperto di brillanti o nel dito medio in granito che campeggia davanti alla Borsa milanese. Eppure, sono oggetti battuti in aste miliardarie. Al credente interessa, più che l’estetica, il memento: guardare l’ora e vedere Padre Pio equivale a ricordarsi delle cose eterne e a ciò che più conta”.
Partecipa, quindi, per tre giorni, alla vita dei pellegrini, la salita ai monti delle apparizioni, la Messa, le preghiere. Senza assistere a fenomeni particolari, senza particolari entusiasmi o emozioni. “Non la ottenni, la guarigione, né ebbi risposta alle mie domande sul perché della sofferenza. Si dice che nessuno torna da un pellegrinaggio mariano a mani vuote, perché anche i meno esauditi riportano conversione o serenità di spirito o cristiana rassegnazione.
Nulla di questo successe con me ed è inutile che lo neghi. Forse sono il solo, o forse sto dando voce a molti. Niente, solo il freddo di una fine ottobre tra i monti e il silenzio attorno alla chiesa dei due campanili. Né Madonne, né segni nel sole o nel cielo, né croci girare o incendi virtuali ardere. Che ciò sia per la durezza del mio cuore? O perché non ne ho veramente bisogno? Oppure, infine, perché anche questo fa parte della croce che devo portare? Boh”.
Ma neanche lui, in realtà, torna a casa a mani vuote. “Una sola cosa mi impressionò di quel viaggio. E devo dire che mi bastò per farmi propendere verso la verità delle apparizioni di Medjugorje.
Tra le iniziative a cui dovevamo prendere parte durante il nostro soggiorno, la capogruppo aveva organizzato una visita alla casa di una dei veggenti, non ricordo quale. Andammo, dunque, tutti quanti al luogo in questione, una casa modesta, nel primo pomeriggio. La signora milanese bussò alla porta, una porta – ricordo – piuttosto piccola, mi pare a vetri coperti da una semplice tendina bianca. La porta si aprì e ne uscirono alcune persone sorridenti. Parlò una che forse, mi parve di capire, era la madre della veggente. Ci disse che purtroppo sua figlia non c’era, era in viaggio. Insomma, la nostra capopullman aveva «organizzato» all’impronta, senza accertarsi preventivamente della presenza in Medjugorje di colei che volevamo vedere e sentire. Tornammo, dunque, indietro senza aver potuto effettuare l’incontro.
Ma a me era bastato. Rimasi veramente stupito dalla serena cordialità di quelle persone e della loro semplice cortesia. Quella gente da dieci anni subiva visite del genere, pensai. Presumibilmente ogni giorno e in tutte le ore. Fosse stata mia, la casa, io mi sarei scocciato da gran tempo. Dopo solo qualche settimana avrei messo un cartello fuori: «Si prega di venire solamente nel tal giorno all’ora tale». Oppure: «La veggente non c’è. Tornerà in data x». Invece, gli abitanti di quella casa aprivano la porta a chiunque, quotidianamente e a qualsiasi orario, sempre col sorriso sulle labbra, quasi contenti di essere stati disturbati da torme di sconosciuti in tutte le lingue. Questo a me sembrava realmente sovrumano. Di più: soprannaturale. Senza una speciale grazia, nessuno poteva conservare per così tanto tempo la pazienza amabile con cui quella gente ci aveva accolto”.
A conferma, mi permetto di aggiungere, di quel che tante volte ha ripetuto don Luigi Giussani: “Il miracolo più grande non era quello delle gambe raddrizzate, della pelle mondata, della vista riacquistata. Il miracolo più grande era uno sguardo rivelatore dell’umano cui non ci si poteva sottrarre”.