A peste, fame et bello, libera nos, Domine”, l’eco della giaculatoria che la Chiesa fa recitare  durante le Rogazioni e il ritornello delle invocazioni dei Santi durante le esequie di un defunto, Agnese, Ambrogio, Carlo, Gervasio, Lorenzo, Martino etc. rappresentano la viva trama del romanzo manzoniano: dei Fatti e degli Attori. Quelle invocazioni, infatti, rendono vivo anche oggi  il ricordo dei personaggi manzoniani, disegnati nella loro umanità semplice e nella caparbia volontà di vivere, sullo sfondo dei grandi avvenimenti del Seicento lombardo. 



Potente nella visione manzoniana è il senso della storia ed il senso del mistero dell’uomo. Quando l’autore si appresta, in quel 1821 così carico di delusioni politiche, a concepire i primi quadri di un romanzo assolutamente unico nell’Italia del Romanticismo (ci stiamo riferendo alla prima ideazione del Fermo e Lucia) dimostra una capacità di sintesi ed una visione della realtà straordinari. Quello che nello svolgimento degli eventi umani rimane taciuto, cioè quel coacervo di sentimenti e progetti che portano alle decisioni i grandi uomini che fanno la storia o a quelle di “gente meccanica”, uomini più umili che spesso la subiscono, questa profondità dell’animo che porta alle azioni l’arte deve metterla in primo piano e rappresentarla. Un proposito questo che avvicina il pensiero di Manzoni alla grande tradizione aristotelica, per cui la Tragedia (forma suprema dell’arte greca) ha un valore più universale della storia stessa.



È interessante identificare le radici di questa visione. Da una parte Manzoni, sulle orme di Gian Battista Vico, ha riscoperto la funzione civilizzatrice della poesia e dell’arte, un concetto ripreso negli stessi anni da Foscolo (sia nei Sepolcri che nelle Grazie). “Il Santo Vero mai non tradir” aveva scritto nel 1805 nel Carme in morte di Carlo Imbonati (v. 215), cioè Poesia e Religione s’incarnano in una unità che sarà feconda negli Inni e nelle opere composte dopo la conversione, nella forma di una “poesia teologica”. Così l’immagine del poeta che “nell’età ferina e bestiale dell’umanità”, come la definì Vico, “alza lo sguardo e avverte il cielo” segna l’avvento dell’umanità, dell’uomo cosciente che intuisce il rapporto con chi lo costituisce. 



Dall’altra parte Manzoni, negli anni della maggiore creatività artistica, il decennio del ’17-27,  rilegge Pascal e trova in lui la percezione più appropriata alla modernità dell’uomo, un essere perduto nello spazio infinito, un re decaduto, diceva Pascal, ma redento dalla colpa e salvato da Cristo risorto. Tuttavia questo essere è inquieto, in perenne ricerca, perciò l’arte, e per eccellenza il Romanzo (“la storia veridica di cose reali” dirà dei Promessi sposi), ha un compito ineludibile, “non tradire il vero”: “Ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale è dissimile dal vero”, mentre “più ci si addentra a scoprire il vero nel cuore dell’uomo, più si trova la poesia vera”. 

Come è stato mostrato da Ezio Raimondi, nel romanzo troviamo Pascal mescolato con Shakespeare, cioè troviamo la complessità drammatica, spesso feroce della storia, e la tragedia dell’uomo nella sua meschinità e grandezza; questa appariva già nelle Tragedie (e l’uomo la scopre in sé nella solitudine o nella disperazione, come vediamo in Ermengarda e in Adelchi o ritroveremo nell’Innominato). Questo carattere enigmatico, misterioso della vita nel romanzo lo descriverà con la formula “così è fatto quel guazzabuglio del cuore umano” traduzione in linguaggio comico dell’espressione pascaliana e dei salmi “Il cuore dell’uomo è un abisso”. 

Davanti a tale scoperta l’autore concepisce l’arte come il luogo che mette in scena quello che si agita nel profondo del cuore, dentro il divenire della storia, fatta di eventi quotidiani e drammatici. Se la storia invita l’uomo che la contempla a discendere nel mistero di se stesso, il poeta del sistema romantico shakesperiano − scrive Raimondi, riprendendo le osservazioni manzoniane – è chiamato per l’appunto a ricostruire quell’uomo interiore che il passato lascia inabissare sotto gli eventi, “a penetrare dentro le profondità della storia”. 

Aggiungerà Manzoni nei Materiali estetici: “V’è una tragedia che si propone di interessare vivamente colla rappresentazione delle passioni degli uomini e dei loro intimi sensi sviluppati da una serie progressiva di circostanze e di avvenimenti, di dipingere la natura umana, e di creare quell’interesse che nasce nell’uomo al vedere rappresentati gli errori, le passioni, le virtù, l’entusiasmo, e l’abbattimento a cui gli uomini sono trasportati nei casi più gravi della vita, e a considerare nella rappresentazione degli altri il mistero di se stessi”.

Questa ultima formula, vedere nella rappresentazione degli altri il mistero di sé, segna il passaggio al Romanzo come genere medio, in cui la verità dell’uomo, i suoi grandi interrogativi non son solo appannaggio dei grandi, ma anche della gente umile; e questa stessa affermazione segna il passaggio a uno stile più basso, humile, aderente ai fatti e ai protagonisti della storia. Non a caso, come osserva ancora Raimondi, il narratore, che è un intellettuale moderno, di statura europea, delega a due personaggi ordinari, Renzo e Lucia, le sue riflessioni sul senso della storia, che vanno del resto unite a quelle pagine così drammatiche e reali della Appendice al Romanzo, La storia della Colonna Infame, che sembra decisamente negare ogni provvidenzialità alla storia degli uomini. 

Ma è, forse, la forma stessa del Romanzo così “tribolata” nella sua stesura e nelle discussioni che ne seguirono, a indicare la risposta agli interrogativi etici e metafisici che propone, cioè nelle pieghe della realtà, in quella mescolanza di cui è fatta la vita di ognuno, in quel romanzo che è la esistenza stessa di ogni uomo (come diceva Federich Schlegel) alla attesa dell’uomo il Volto del Mistero si è svelato, sfondando la lontananza, come appare a Renzo nei tratti rievocati di Fra Cristoforo o di Lucia nelle notti della fuga da Milano o nella voce amica del fiume Adda, o ancora nello scampanio festoso delle campane, cioè della Chiesa, per l’Innominato.