La grande passeggiata, opera prima di Fabrizio Sinisi, venticinquenne pugliese, racconta una storia il cui protagonista, Frédéric Jean-Paul, vive una vicenda esplicitamente ispirata a quella, nota alle pubbliche cronache, che vide ormai più di un anno fa l’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn accusato di stupro ai danni di una cameriera del Sofitel di New York.



Il testo, in versi endecasillabi e settenari e nel quasi totale rispetto delle tre unità aristoteliche di tradizione classica, ha scopi diversi da quelli che il rimando alla nota vicenda di cronaca potrebbe suggerire. Lo spettacolo va in scena dal 12 al 16 dicembre al Teatro Royal di Bari: regia di Federico Tiezzi. Con Sandro Lombardi, Marco Brinzi, Andrea Luini, Rosa Sarti e Nicolò Todeschini.



Perché decidere di raccontare a teatro una vicenda ispirata a un fatto di cronaca?

Il testo non racconta una vicenda di cronaca, ma lo scandalo di un uomo che – dopo aver compiuto un atto assurdo – per la prima volta si sorprende della propria persone, si pone delle domande: si scopre mistero a se stesso. E di come questo scandalo si ripercuota, in modi diversi, sulle persone che lo circondano: sua moglie, ad esempio, o alcuni esponenti del potere costituito. Frédéric Jean-Paul, il protagonista dello spettacolo, compie un percorso di coscienza, di apertura di disponibilità nei confronti di se stesso: la propria stessa persona inizia a imporglisi come una novità, come un fatto. La vicenda di cronaca, cioè il presunto stupro, è in qualche modo un pretesto: tutto ciò che avviene nello spettacolo è infatti successivo e consequenziale rispetto a quell’episodio. Non mi interessava, né mi ha mai interessato, la mera prurigine dell’aspetto sessuale, né tantomeno una facile retorica morale contro i potenti. Ciò che invece mi aveva colpito, quando scoppiò lo scandalo Strauss-Kahn, è stata la totale, apparente illogicità di quel gesto: da parte di un uomo che di lì a pochi mesi sarebbe con tutta probabilità diventato candidato premier del Partito Socialista Francese. Mi sono chiesto che cosa potesse spingere un uomo a distruggere così i propri progetti, le proprie ambizioni, i propri disegni.



Mi è sembrato che quella vicenda rivelasse per l’ennesima volta una verità decisiva: che l’uomo è superiore ai progetti che ha su di sé; che la sua natura travalica gli schemi con cui cerchiamo di misurare e programmare la vita: al punto da poter degenerare in atti tragici, incomprensibili. Mi ha toccato profondamente constatare come non solo nelle vicende “private” di ogni uomo, ma anche sul palcoscenico della storia internazionale, il mistero che sta all’origine di ogni atto umano dimostri la propria preminenza strutturale: in questo caso, è come se un fattore oscuro, non dominabile dall’uomo, sia entrato prepotentemente nella storia di quest’uomo per scompigliargli le carte. E le persone che dovrebbero essere le più care – la moglie, l’amico – sono quelle più spaesate da questa riaffermazione. In questa luce, anche il dramma di un presunto stupro diventa un’occasione “positiva”: permette di riattivare questo rapporto, di ricominciare questa lotta con il significato delle cose, come se fosse la prima volta.

 

Questo è l’aspetto principale del testo. Ce ne sono degli altri?

 

Molti aspetti del testo sono venuti alla luce durante le prove per lo spettacolo. Delle circostanze particolarmente fortunate hanno voluto che questo testo nascesse in una dimensione già “comunitaria”, collettiva, com’è del resto la natura del lavoro teatrale. Mi sono formato all’interno del Teatro Laboratorio della Toscana diretto da Federico Tiezzi (anche regista dello spettacolo, ndr), insieme ad altri giovani professionisti, ed è lì – durante le prove del Woyzeck di Georg Büchner, che com’era ovvio mi ha influenzato moltissimo – che il testo ha visto le sue prime mosse. Insieme a Federico Tiezzi abbiamo cominciato a lavorare sul testo, sul suo sviluppo. Non solo lo spettacolo, ma anche il testo stesso non avrebbe mai visto la sua forma definitiva senza il suo aiuto: mi ha indicato le direzioni in cui declinare l’azione, come mettere in luce i nuclei tragici, come lavorare scenicamente sui concetti in modo da trasformarli in vere e proprie figure. È stato lui a farmi intuire nel testo tante altre direttrici da portare più a fondo: quella della forma, del verso regolare; ma ancora, il dramma del potere, la possibilità di sviluppare il testo come una vera e propria inchiesta intorno ad un uomo ormai stanco di recitare una propria parte. Non so se sono riuscito a seguire tutte le sue indicazioni, ma ci ho provato. Anche la recitazione di Sandro Lombardi, che interpreta il protagonista, mi ha rivelato a sua volta la natura dolente, desiderante del personaggio – la tensione drammatica, quasi carnale, delle domande che pone. Erano tutte dimensioni del testo che, pur avendolo scritto io stesso, non avevo rilevato sino in fondo, e che non avrei mai approfondito senza il contributo di certi maestri. Il teatro, per sua natura, è l’inseguimento collettivo di un avvenimento: e il lavoro su questo testo è stato, per me e per altri, credo, uno di questi momenti.

 

Anche un fatto di cronaca, quindi, può fornire materia per uno spettacolo teatrale?

Bisogna fare una distinzione fra ciò che è la cronaca e ciò che, invece, è il presente. La cronaca è legata all’attualità: è l’interesse per qualcosa che in questo momento è già passato, che non c’entra con me. O meglio: c’entra nel momento in cui permette una lettura degli eventi – cioè se l’attualità diventa la possibilità di una comprensione del presente. Il teatro non esiste, non ha valore se non è una possibilità di comprensione del presente. E il presente non è soltanto il governo Monti, gli indici dei tassi d’investimento o lo sciopero ferroviario: il presente è anche – e oserei dire soprattutto – ciò che riguarda il senso del destino, la natura delle cose, il significato dello stare al mondo. La vicenda del principe Amleto ci interessa non perché racconti ciò che succedeva nella Danimarca medievale o nell’Inghilterra elisabettiana, ma perché tocca qualcosa che è parte strutturale dell’essere umano e che è la scintilla, il segno della sua grandezza. Il teatro non può permettersi di esistere per una funzione inferiore a questa: offrire poeticamente, figurativamente, gli strumenti di una lettura del proprio presente e della propria condizione.

 

Per questo motivo il testo è scritto in versi regolari?

 

Certo. Anche la tradizione è parte del nostro presente. Trattarla con quel reverente senso d’inferiorità che purtroppo tante volte aleggia nell’insegnamento scolastico, come se tra Leopardi o Manzoni e noi ci fosse un incolmabile abisso, è il modo più rapido per neutralizzarla. Uno scrittore come Manzoni è grande proprio perché ha aperto degli spazi di descrizione del cuore umano che erano, prima di lui, molto meno esplorati: per noi ha scritto ciò che ha scritto, non per il proprio monumento. E allora perché non utilizzare proprio quelle strade, quegli strumenti? Per questo ho voluto scrivere La grande passeggiata con dei metri relativamente vicini a quelli dell’Adelchi: una scrittura “chiusa” permette un’imprevedibilità conoscitiva irresistibile: cercando il ritmo, il verso, la rima giusta ti imbatti in scoperte tanto gratuite da sembrare donate. Sono sicurissimo che tanti versi meravigliosi della Divina Commedia siano nati così: aspettando quella parola giusta, più vera delle altre, che, se hai fiducia e sai in che direzione cercare, prima o poi arriva.