Muovendosi lungo le curvature del tempo (Lo tems vai e ven e vire cantava Bernart de Ventadorn, trovatore provenzale, nel mezzo del XII secolo), la signora Milica Popovic rivive i ritorni, le virate appunto, del passato, dal suo appartamento di Belgrado, da cui ha cessato di uscire ormai da anni. È il 1984 e la donna, ottantenne, sa di essere sulla soglia della linea di meta: aspetta solo che, dall’altra parte, qualche volto amico le passi l’ovale dorato per lanciarsi, se così si può dire, nell’ultimo balzo decisivo.
Nella stanza vengono a trovarla (o è piuttosto lei che si muove a cercarli, come una vagabonda, o come una pellegrina) i momenti della sua vita, scanditi dall’esattezza delle date, giorno mese e anno, che più l’hanno segnata e qui si incontrano, si intrecciano, si sovrappongono in un nuovo presente. La giovinezza in cui la sua bellezza ha conosciuto la pittura e l’amore, fino al matrimonio con Dusan, critico d’arte ed autorevole insegnante all’Università di Belgrado. I due figli, Marija e Velja, nati negli anni trenta, quando l’ora e la potenza delle tenebre, che già da tempo hanno steso la loro ala funesta sul mondo, si stanno preparando a dare una nuova tremenda prova di sé.
Anche la Serbia conosce l’occupazione nazista, mitigata, o forse al contrario esacerbata, dalla decisione del marito di collaborare con il regime, mentre Milica, quasi forzata, senza che il marito sospetti nulla, nasconde un autorevole esponente della resistenza, Pavle Zoc, pittore e assistente di Dusan. Sarà proprio quest’ultimo, con la collaborazione del portiere dello stabile, del droghiere armeno sotto casa e di Zora, la nostra Zora, portata in casa da Dusan e trattata come una di famiglia, che deciderà dell’arresto del marito di Milica, quando, finita la guerra, salirà al potere il maresciallo Tito.
Da allora Milica vivrà relegata in una piccola porzione del suo stesso appartamento, tirando grandi i due figli e facendoli studiare, nonostante la miseria, lavorando come traduttrice. Mobili, quadri, suppellettili e ogni altro bene saranno requisiti per abbellire, come proprietà del popolo, le case dei nuovi potenti. A Milica resterà solo il piccolo tavolino di mogano, in stile inglese, ad assicurarle che tutto quel che è avvenuto è davvero avvenuto. L’altro amuleto, un piccolo quadro donatole dall’amico pittore Sava Sumanovic, anche se sottrattole, da lontano sarà fedele testimone che lei, Milica Popovic, è davvero, ancora, lei.
Al contrario il Potere esige come negli incubi d’un remoto selvaggio passato, una forma nuova di sacrificio umano:
“E nel contempo compresi, rattrappita com’ero, che quella componente d’irriconoscibile che avevo già individuato, d’un tratto, solo su alcuni volti riconoscibili – quello del droghiere dell’angolo, trasformato in maggiore, o dell’elegante custode Miloje, travestito da logoro odiatore-di-me, o della nostra mastodontica maga fattasi granatiere partigiano -, che questa componente non si riduceva solamente alla prontezza assoluta della non-memoria e a una piazza pulita ancor più assoluta dai ricordi, ma anche alla consapevolezza che questa rinuncia a una forma di memoria, ovvero l’accettazione di un aspetto della dimenticanza globale, era una delle basi essenziali di una nuova modalità dell’esistenza umana. (…) Nell’impero paradisiaco dell’Idea il tu scritto con l’iniziale minuscola può esistere soltanto se, come il loro Io, che si scrive con l’iniziale maiuscola, è un seguace di tale Idea. Il resto era stato cancellato”.
Ma non è stata cancellata Milica, né cancellata, anche grazie a lei, la voce che si alza dal fondo dell’anima del carnefice e che risuona sonora: Che fine farà la mia anima?
Bel romanzo questo di Svetlana Velmar-Jancovic, scrittrice serba, pubblicato da Jaca Book. Il titolo è una parola turca che significa luogo delle tenebre, come i sotterranei che corrono sotto la fortezza di Kalemegdan, dove morirono in tanti, ma dove trovarono scampo tanti fuggitivi. Questa parola è Lagum.