Ma cosa avrà mai detto il Cardinale Scola celebrando, nel suo discorso in occasione della festa di Sant’Ambrogio, il XVII centenario dell’Editto costantiniano di Milano del 313, mi sono chiesto, leggendo l’animoso commento di un pur finissimo giurista come Stefano Rodotà qualche giorno dopo su Repubblica? Tanto da fargli affermare senza chiaroscuri che le parole del Cardinale sulle istituzioni che non garantirebbero la libertà religiosa in nome di una presunta neutralità della laicità dello Stato riaccendono antiche polemiche sulla separazione dei poteri, lesive della libertà di tutti?  



E sì che, quando sono andato a leggerlo, il discorso del Cardinale voleva celebrare, riprendendo una definizione di Gabrio Lombardi, l’Editto di Milano come l’initium libertatis dell’uomo moderno, l’ingresso cioè della libertà religiosa, e con essa fondamentalmente della libertà di coscienza, fondamento di ogni altra libertà a venire, nella praticabilità pubblica dell’uomo “moderno”, secondo una cronologia storico-speculativa della “modernità” come legata alla predicazione cristiana, che si deve, su basi hegeliane, alla storia della metafisica di Dilthey; come legata al primato, sul “foro pubblico”, del “foro interiore”, che con l’esperienza cristiana della vita si affaccia nella dimensione etico-religiosa, da cui prenderà le mosse per conquistare con la modernità tradizionalmente intesa lo spazio politico. 



Ma in sostanza, non cedendo a divagazioni storico-speculative, che cosa ha detto Scola? Che in effetti un ascolto dei movimenti profondi  delle società civili occidentali, soprattutto europee, vede le divisioni più acute “tra cultura secolarista e fenomeno religioso”, più che tra credenti di diverse fedi, come si tende comunemente a pensare. Fatto che a dir la verità mi pare di evidenza se non palmare, almeno a mani aperte, di cui mi pare difficile menare scandalo, quanto meno sotto il profilo dell’analisi. 

«Misconoscendo questo dato, ha detto il Cardinale, la giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare, sotto l’idea di “neutralità”, il sostegno dello Stato ad una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio. Ma questa è una tra le varie visioni culturali (etiche “sostantive”) che abitano la società plurale. In tal modo lo Stato cosiddetto “neutrale”, lungi dall’essere tale fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili tendendo ad emarginarle, se non espellendole dall’ambito pubblico. Lo Stato, sostituendosi alla società civile, scivola, anche se in maniera preterintenzionale, verso quella posizione fondativa che la laicité intendeva rigettare, un tempo occupata dal “religioso”. Sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde – almeno nei fatti – una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa». 



E ancora: «la libertà religiosa appare oggi come l’indice di una sfida molto più vasta: quella della elaborazione e della pratica, a livello locale ed universale, di nuovi basi antropologiche, sociali e cosmologiche della convivenza propria delle società civili in questo terzo millennio.Ovviamente questo processo non può significare un ritorno al passato, ma deve avvenire nel rispetto della natura plurale della società. Pertanto, come ho avuto modo di dire in altre occasioni, deve prendere l’avvio dal bene pratico comune dell’essere insieme. Facendo poi leva sul principio di comunicazione rettamente inteso, i soggetti personali e sociali che abitano la società civile devono narrarsi e lasciarsi narrare tesi ad un reciproco, ordinato riconoscimento in vista del bene di tutti».

Tanto è bastato per far scrivere a Rodotà, anziché che Scola individua un problema, per cui nessuno ha soluzioni facili in tasca – neanche i cattolici ovviamente, al netto di una fede nella verità sostegno a tutti i dubbi di una onesta buona volontà che si eserciti su questo o quel problema della condizione umana oggi –, che nelle parole del Cardinale vi sarebbe «la negazione della libertà della coscienza e l’affermazione che la definizione dell’antropologia del genere umano è prerogativa della religione»; in definitiva la tesi di una restaurazione antropologica (di stampo clericale, non è detto, ma è sottinteso) impossibile, fortunatamente dal punto di vista di Rodotà, perchè il legame tra antropologia e fenomeno religioso si sarebbe irreversibilmente sciolto per l’annodarsi di ben altro legame, culmine della modernità, tra antropologia e rivoluzione scientifica. 

«Quel legame» scrive Rodotà «si è sciolto grazie all’ampliarsi della riflessione etica e al sorgere di una nuova antropologia, prodotta dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Contro questa antropologia si leva la difesa della “natura” umana impugnata da un fondamentalismo religioso che mostra non tanto una attitudine antiscientifica, quanto piuttosto una incapacità di comprendere le nuove dimensioni del mondo e dell’umanità. È proprio il pensiero laico, invece, a forgiare gli strumenti perché non ci si arrenda ad una deriva tecnologica, con la sua capacità di garantire l’umano attraverso i principi di eguaglianza e dignità, di autodeterminazione della persona». La neutralità dello Stato, la sua laicité, che Scola contesta nei suoi aspetti problematici, “laicisti”, sarebbe il presidio raggiunto nel diritto e nella sfera pubblica e statale di queste “nuove basi” dell’antropologia dell’uomo moderno. 

Ora Rodotà vorrà concedere che lo sciogliersi del legame tra antropologia e fenomeno religioso (coscienza, homo religiosus) potrebbe ben essere ascritto non ad un ampliamento della riflessione etica, bensì ad un suo restringimento “egologico”, che la separa dal vissuto sentimento della partecipazione al tutto del mondo (il deus sive natura, che nella confessione cristiana del fenomeno religioso come questa “coscienza” ha carattere personale trascendente), e le appronta l’ideologia propria dello scientismo insito ad “visione scientifica del mondo” che si presume eticamente autoconsistente a reggere e “leggere” nel suo senso ogni ambito della vita, finendo per perdere anche l’eticità della scienza come sorveglianza non solo delle sue procedure, ma dei suoi limiti intrinseci. 

Non so se Rodotà si renda conto che parlare di “una nuova antropologia” prodotta dalla rivoluzione della scienza e della tecnica equivale a dire che esse produrrebbero un “nuovo uomo”, radicato nella sua autoproduttività tecnica, nell’artificio che è capace di fare se stesso, e tolto alle sue basi ontologico-naturali tradizionali, e fin qui conosciute. Questo significa l’attacco alla “natura” umana difesa nell’impianto argomentativo di Scola come reperto concettuale fondamentalmente archeologico per capire e orientare la modernità; ma questo significa anche che la riflessione etico-giuridica di Rodotà, lo voglia o no, e la sua antropologia, virano verso un post-umanismo programmatico; un post-umanismo che si congeda dalla vichiana consapevolezza che l’identità umana come scienza e coscienza di sé (singola e collettiva; consapevolezza antropologica) si costituisce attorno a “nozze, sepolture e are”, fino ad oggi domande fondative della vita, del suo “senso”, risolte lungo il filo di un’universale natura umana riconoscibile in tutte le culture e in tutti i tempi. 

 

E non è un caso che il dissenso “politico” da Scola di Rodotà è su questi temi (per altro dal Cardinale neppure affrontati nel suo discorso) che si esplicita, nella contestazione vibrante dei «molti no che la Chiesa ha pronunciato: no alla procreazione assistita; no al riconoscimento giuridico di forme diverse dal matrimonio eterosessuale; no alla scuola pubblica come struttura essenziale per la conoscenza e l’accettazione dell’altro; no al testamento biologico».

Nel merito dell’assunta antimodernità, da parte di Rodotà, con immediate ricadute politiche, del discorso di Scola, l’animus del confronto con il Cardinale è già tutto in un passaggio iniziale del suo intervento su la Repubblica; che l’homo religiosus – anche nella “confessione” religiosa propria all’esperienza cristiana della vita, cui quelli che sono venuti dopo devono non solo la libertà, ma la stessa “anima” a tutti! – è fondamentalmente agli antipodi della libertà dei moderni, della libertà soggettiva, e della sua ricerca della verità, che comincia nell’uomo e nell’uomo si chiude e deve chiudersi. Chi si fa paladino della religio cristiana come fonte di libertà morale, civile e politica è persino costretto, per Rodotà (che cita su questo la storiografia da quotidiano di Vito Mancuso) a mentire sulla propria storia, fatta di fondamentalismo e di violenza, e non (più semplicemente, ad una più serena valutazione storica) magari di cedimenti anche terribili all’uomo “di carne” con cui anche l’uomo cristiano combatte la sua vera “guerra santa” per farsi “giusto” con Dio e con gli uomini, uomo “spirituale” benevolente libertà e dignità di ogni uomo, imago dei professato e creduto sulla parola del Figlio di Dio. 

Per Rodotà l’Editto di Milano, e la celebrazione fondamentalmente impropria che riceve, poco contano per la tutela di questa libertà e dignità dell’uomo erroneamente fondata sulla rivendicazione della libertà religiosa, come possibilizzante ogni altra libertà; e bisognerà aspettare, per veder qualcosa di “concreto” in questo senso, l’affermazione rinascimentale che magnum miraculum est homo. Solo qui comincerebbe davvero la libertà “moderna” di cui oggi godiamo, e che lo Stato laico, dalla rivoluzione francese in poi, tutelerebbe; ed ha da tutelare ancora contro proteste che oggi, come con Scola, ambirebbero a restaurazioni impossibili. 

Ora, a parte che anche per il rinascimento “filologico” il miracolo dell’uomo è “miracolo” di Dio – vi si mira la sua immagine: ennesima variazione dell’imago dei scoperta nel volto dell’uomo dal cristianesimo –, se citando Pico della Mirandola in definitiva si vuol dire (contro Pico invero, dove quel miracolo porta ancor più vividamente a Dio) che si è miracolo di se stessi, che l’uomo è miracolo di se stesso, si può certamente dire. Ma con ciò si attribuisce a ieri (via facilior della contemporaneità della storia) quel che ci interessa oggi: ma questo non è rinascimento, è scientismo; un elogio non della dignità dell’uomo, ma un’apologia della tecnica e delle sue possibilità, tutte pretese, di “produrre” un “nuovo uomo” e una nuova “ontologia”, a base autopoietica, dell’essere sociale degli uomini. 

Un’apologia acritica che vede come “un cane morto” i dubbi di un uomo contemporaneo, dell’uomo contemporaneo, di che cosa possa significare per l’uomo d’oggi e di domani il sempre più avanzante “secolarismo”, più che come chiusura dei seminari e della chiese cattoliche, che magari ne verrebbe di conseguenza, come un generale “separarsi” a-religioso dell’uomo dal tutto del mondo, che è poi il nodo ontologico che esprime l’homo religiosus. E questo per mettersi da soli al vertice della creazione, neanche per concessione “naturale” e/o “divina”; e quindi con un dubbio se ci siamo davvero, al vertice, o anche questo non sia una forma di “passaggio” naturale, che almeno la domanda sul patema esistenziale della sua consapevolezza continua a richiederla.

In questo stringersi apologetico del nodo di tecnica e antropologia, per il progetto del “nuovo uomo”, per cui il “fatto religioso” non avrebbe occhi, ci sono proprio le ragioni delle preoccupazioni “antropologiche” su dove ci siano nell’uomo le radici dell’initium libertatis, se nella sua apertura “trascendente” almeno se stesso, ovvero nella sua autoreferenzialità poietica, nella presunta autopoiesi dell’umanità dell’uomo nella scienza-tecnica, oggi. Se poi davvero nello stringersi di questo nodo tra tecnica e antropologia, dove è l’uomo a dipendere per la definizione di sé dalla tecnica, sia poi la dignità dell’uomo ancora a signoreggiare la tecnica, o non piuttosto sia alle porte, e già abbastanza avanzato, il suo signoreggiare sull’uomo. Checché ne pensi Rodotà, queste sono preoccupazione assolutamente “laiche”; non c’è bisogno di Dio – né “confessato”, né “comunicato”, anche se questa libertà va lasciata a chi lo confessa e lo comunica, anche nello spazio pubblico, e non significa volerlo imporre – per essere preoccupati di un “mondo”, e tanto più di una “natura” umana, ridotti a pura materia operazionale dell’agire, anche nelle regioni esistenziali (nascita e morte, la vita e la sua condotta) fondative  del senso (a sé e di sé) del “miracolo uomo”.

Con la sua celebrazione dell’Editto di Milano, Scola non ha nascosto la polvere dei problemi della libertà oggi, anche di quella religiosa, sotto il tappeto delle belle parole sempre politicamente corrette. Perché i contenuti della libertà – eguaglianza, dignità, autodeterminazione della persona – nascono dal “cuore” dell’uomo, e lì possono essere negati, non dalle sue “mani” (la positività, anche giuridica, delle sue azioni), che pure possono aiutare o uccidere; quei “contenuti” sono una credenza antropologica, se si vuole, e per qualcuno una verità di fede, ma certo non un prodotto della scienza e della tecnica.

Mi sembra che ci sia di che discutere, senza anatemi, e con un po’ di fiducia anche senza patemi.