Nell’Orlando furioso Ludovico Ariosto (1474-1533) presenta l’esito del processo di cambiamento della visione dell’uomo dall’epoca medioevale a quella rinascimentale e descrive la fine della tracotanza e della presunzione dell’uomo di poter plasmare se stessi e la realtà.

In forma poetica Ariosto rappresenta la sua visione dell’uomo, che è sintomatica di una crisi che ha ormai intaccato sia le certezze medioevali che quelle del primo Rinascimento. Così, fin dal primo canto del poema incontriamo la selva di dantesca, memoria in cui i valorosi paladini si perdono dietro la ricerca di quel bene che è diventato per loro l’idolo principale della vita. Chi cerca l’armatura, chi il cavallo, chi la donna di cui si è innamorato, tutti cercano qualcosa che possa dissetare la loro brama di felicità. La ricerca è, però, vana.



Viene qui ribaltata la queste medioevale, quella di Dante che segue il maestro Virgilio prima e Beatrice poi verso il Paradiso, quella di Perceval che vuole ritrovare il Sacro Graal, che è segno dell’ultima cena, dell’eucarestia e, quindi, di Cristo. La stessa queste inconcludente troviamo nel  palazzo incantato (canto XII) dove il mago Atlante ha per la seconda volta rinchiuso Ruggero per proteggerlo dal mondo e dalla morte che gli è stata profetata nel momento in cui sposasse Bradamante. Lì, nel palazzo, «tutti cercano il van, tutti gli danno/ colpa di furto alcun che lor fatt’abbia:/ del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;/ ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia;/ altri d’altro accusa: e così stanno,/ che non si san partir di quella gabbia;/ e vi son molti, a questo inganno presi,/ stati le settimane intiere e i mesi». È qui rappresentato il peccato di idolatria: un bene terreno assolutizzato dall’uomo, ricercato come possibilità di risposta alla propria sete di felicità. Del mancato raggiungimento dell’oggetto del proprio desiderio, dell’insuccesso nell’ottenimento della felicità, però, ciascuno accusa gli altri, senza rendersi conto della vanità dell’idolo.



Anche Orlando giunge nel palazzo inseguendo la sua bella. Il narratore, infatti, ci racconta che a Orlando, «come mira alla giovane bella,/ …par colei, per cui la notte e il giorno/ cercato Francia avea dentro e d’intorno». Allora, Ariosto, riprendendo il Dante della Vita nova, scrive: «Non dico ch’ella fosse, ma parea/ Angelica gentil ch’egli tant’ama». Chiara è, qui, la memoria letteraria del sonetto dantesco «Tanto gentile e tanto  onesta pare», ove viene cantata l’oggettività della bellezza della donna, specchio dell’onestà, dell’umiltà e della fede di lei. Angelica è allora costruita sulla parodia di Beatrice, già nel nome che richiama l’idea di donna angelo stilnovista.



Senza dubbio, il rapporto con la donna in letteratura e nell’arte e l’immagine di donna ideale sono due segni fondamentali per comprendere un periodo storico-culturale. Tanto quanto la Beatrice dantesca rappresenta l’ipotesi cristiana di lettura della realtà in cui tutto c’entra con il senso del reale, ovvero con Cristo che è «tutto in tutti», così l’Angelica ariostesca è l’emblema della frammentazione della realtà, ma, sarebbe più corretto dire, della frammentazione dell’io che percepisce il particolare slegato, assoluto, cioè (nel significato etimologico del termine) indipendente da tutto il resto. Quando la realtà è parcellizzata e assolutizzata, ovvero slegata dal senso e dal Mistero, allora un solo aspetto può rischiare di essere  idolatrato. Questo è quanto accade con l’Angelica dell’Orlando furioso.

Noi potremmo dire anche che molti trascorrono tutta la vita dietro a queste illusioni, non risvegliandosi mai dal torpore e dal sonno in cui sono entrati e di cui scrive anche Dante quando riferisce: «Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,/ tant’era pien di sonno a quel punto/ che la verace via abbandonai» (Inferno I). Dante ha avuto la grazia di incontrare nella vita qualcuno a cui poi si è affidato. Nell’Orlando furioso vi sono tanti uomini soli che hanno perso di vista l’ideale e che sono sballottati dalla sorte e dalla passioni «di qua di là di su di g», come i lussuriosi dell’Inferno dantesco.

Il grande paladino Orlando, che nella tradizione combatteva per l’ideale cristiano e per il suo signore, ora impazzisce per amore quando scopre che la donna che lui ama si è sposata con Medoro. Una degradazione parodistica e grottesca del cavaliere è quella descritta nella pazzia di Orlando, proprio al centro del poema (canti XXIII-XXIV), quando il paladino diventa prima fante, poi si priva delle armi e va per le campagne sradicando querce e uccidendo cristiani.

La parodia del poema cavalleresco è indice chiaro della perdita di fiducia nei valori medioevali. Sarà Astolfo sull’Ippogrifo a recuperare il senno di Orlando sulla Luna. Se nel capolavoro dantesco la Luna costituisce il primo cielo in cui il poeta vede le anime dei santi, qui invece Astolfo vede tutto ciò che l’uomo perde sulla Terra, un altro modo che Ariosto utilizza da un lato per demistificare il comportamento umano, per mostrare la vanità delle illusioni, dei piaceri, delle ricchezze e dall’altro per mostrare come non vi sia un Oltremondo, ma solo la dimensione mondana della vita. Lì sulla Luna, dove finisce tutto quanto l’uomo perde sulla Terra, si trova la maggior parte del tempo che l’uomo spreca dietro a beni futili.

Recuperato il senno, Orlando sarà uno degli artefici della vittoria dei cristiani contro i musulmani nel duello di Lampedusa. Il saraceno Rodomonte dalla forza bruta sfiderà a duello il cristiano Ruggero e troverà la morte nell’ultimo canto (XXXXVI). 

Il giudizio sull’uomo di Ariosto è, però, chiaro e categorico. L’autore non intravede soluzioni, prospettive o speranze di cambiamento. Tramontata è la certezza di un bene più grande per cui valga davvero la pena agire, di un destino positivo per l’uomo e, nel contempo, i beni terreni appaiono come vani. Questo è l’inizio della modernità in cui dubbio, insicurezza nella conoscenza, incertezza sulla donna e sui rapporti umani, eliminazione di Dio dall’orizzonte della storia e dell’azione umana diventano specchio di un cambiamento ormai avvenuto. Non c’è ancora il relativismo, perché il giudizio è chiaro. I personaggi ariosteschi, però, non vivono più la vita come avventura, perché è stato estromesso il Mistero dalle vicende umane. Il caso muove tutto.

L’uomo rinascimentale è tornato solo, vive per se stesso, ha perso la dimensione comunitaria. Pensiamo  che quasi contemporanea alla prima edizione del Furioso (1516) è la riforma protestante (1517), che separa la coscienza dell’uomo dalla chiesa, la chiesa locale dalla chiesa di Roma, riduce l’uomo al suo rapporto personale con Dio, di fronte al proprio peccato e all’incredibile grandezza del Mistero. Non servono più chiesa, sacramenti, preti. Raggiungere la meta è diventato un traguardo da perseguire da soli, senza aiuti, senza mediazioni, senza compagnie. Questo tipo di individualismo si impadronisce anche di uomini che non aderiscono al Protestantesimo, ma che sentono, pur se in ambito cattolico, la suggestione del pensiero di Lutero. La chiesa peccatrice è stata separata dal Cristo perfetto. Come si potrà da soli seguire Cristo al di fuori della compagnia della chiesa?