Il tema della laicità, su cui com’è noto il cardinale Scola è da poco intervenuto in un’occasione tanto significativa ed emblematica come l’anniversario dell’Editto di Milano, purtroppo si presta costantemente a quelle contrapposizioni deteriori che fanno le veci della paziente riflessione nel merito. Nel suo commento apparso su queste pagine all’indomani della relazione di Scola, Mauro Magatti auspicava che di fronte alle parole singolarmente equilibrate del presule non si scatenasse la consueta guerra per bande – tanto per intendersi, “laicisti” contro “clericali”. È sufficiente in effetti leggere il testo di Scola per coglierne la ricchezza e perfino l’ambiguità delle sfumature, in un discorso che resta in ogni caso lontanissimo da qualunque nostalgia integralista attraverso la presenza, accanto al richiamo alla verità, dell’enfasi sulla libertà quale portato profondo dell’Editto. Un’occasione, dunque, per una riflessione anche problematica e critica – come è proprio delle questioni intellettuali che fuoriescono dagli schemi.
La replica di Rodotà su Repubblica, che legge senza ambagi il Cardinale all’insegna della “negazione della libertà di coscienza”, rischia invece di ricadere nel riflesso condizionato, tanto più notevole in quanto espresso da parte del ceto intellettuale avanzato ed emancipato.
Forse è proprio questo il punto. La pretesa di definire una posizione “laica” nel senso di “neutrale” in realtà tende ad essere una mistificazione o un autoinganno – un’ideologia. È punto precipuo della tesi di Scola, che così trova conferma proprio nella reazione che ha suscitato: ovvero, la presunta neutralità in realtà è parte in gioco. E ciò perché nell’ambito umano soggetto ed oggetto dell’indagine inevitabilmente si sovrappongono in maniera che rende illusoria l’avalutatività. Non a caso Scola sottolinea una verità che tende a venire dimenticata: la cultur war solo relativamente sotterranea attualmente in corso è molto più quella che vede le pur differenti religioni contrapposte all’atteggiamento mondano ed immanente, progressivamente dominante in Occidente da un paio di secoli, che quella contraddistinta dallo scontro tra le religioni. Non si tratta di negare le differenze tra le tradizioni religiose, tra l’altro proprio in relazione al tema del rapporto con la sfera secolare; ma di cogliere che una certa apertura alla trascendenza o viceversa la chiusura autocompiaciuta nella dimensione immanente sono opzioni antropologiche ben più radicalmente contrastanti.
E pertanto, per stare al punto centrale, Scola afferma l’Editto come passo cruciale dell’avvento della libertà, mentre per Rodotà si tratta proprio di non (potere) concedere questo. Sono visioni contrapposte, delle quali è certo possibile vagliare criticamente la fondatezza, ma che non possono pretendere uno statuto neutrale od “oggettivo” nel senso dello statuto che hanno appunto gli oggetti.
Il nodo cruciale della critica di Rodotà, acutamente colto da Eugenio Mazzarella nel suo intervento, è comunque senza dubbio la ripulsa nei confronti della proposta di Scola di ripartire da una certa struttura antropologica profonda. Si tratta di un tema teoricamente scottante e anche assai complesso e polivoco. Il cardinale di Milano propone tutt’altro che un naturalismo naif, rifacendosi piuttosto al dato delle grandi configurazioni di senso tradizionali che hanno innervato la nostra civiltà nelle scansioni cruciali dell’esistenza umana, e che oggi sono soppiantate dal nulla. Si vorrà negare che vi è qui un problema?
Da parte sua Rodotà afferma la nascita di una nuova antropologia di derivazione tecnica: il fatto curioso è che il pensiero laico è incaricato di riaffermare di fronte ai possibili rischi di espropriazione dell’umano valori quali dignità, autodeterminazione, o eguaglianza − ovvero precisamente di “garantire l’umano”. Ma allora, un “umano”, e alcuni suoi specifici corollari, esistono infine inconcussi? La tecnica trova dei limiti? Ma in virtù di cosa e dove, da un punto di vista che si vuole assolutamente laico e neutrale, andranno posti tali limiti? E perché invece la natura cui si riferisce Scola sarebbe antiquata e coercitiva? In realtà, si noti, qualunque normatività, anche “laica”, esercita ovviamente qualche forma di discernimento e coercizione.
Il fatto è che Scola si riferisce ad un legame tra natura e dimensione religiosa; e dall’altra parte viene affermato che tale legame si è sciolto in favore di un legame tra natura e tecnica. Ora, è impossibile negare che tale diagnosi contenga molto di vero; ma sarebbe ingenuo non notare che in questo modo è precisamente la tecnica ad assumere il ruolo della religione. È pertanto poco plausibile che proprio la tecnica possa farsi carico di essere fattore critico nei confronti di se stessa e dei suoi possibili eccessi. La nuova antropologia nata dalla tecnica non può trovare nella stessa tecnica i propri eventuali contravveleni, per lo stesso motivo per cui chi si trova entro un paradigma valoriale difficilmente ne esce salvo che nei casi in cui si metta a confronto precisamente con i limiti e confini di tale paradigma, dunque con ciò che si trova al di fuori di esso.
Viene così confermato che la tecnica non è una realtà neutrale e in questo senso “laica”. La laicità possibile anziché mitologica è consapevole di ciò: essa è il tentativo, sempre parziale e ricominciato, di aprire spazi ove le tradizioni, religiose o di altro genere, apportino il proprio contributo ad una società complessa.