Quanto può apparire irripetibile e personale l’esperienza della Vigilia di Natale! E, tuttavia, con quale profondo ed inscindibile vigore proprio tale esperienza originaria torna senza posa ad offrire il dono della Grazia unificante ai credenti e, più in generale, a tutti gli esseri umani – quale che sia, nella loro esperienza quotidiana sul piano personale e comunitario, il loro grado di consapevolezza, responsabilità, impegno, disponibilità di fronte al vivificante Mistero della Nascita di Nostro Signore! 



Anche questo suggerisce la preziosa testimonianza proposta da un pregevole sonetto di un ennesimo – per chi ha la pazienza di seguire gli sporadici interventi di chi scrive – autore cattolico di lingua inglese, operante nella cornice del XIX secolo e nel sorprendente e tuttora non adeguatamente esplorato mare magnum di quella rigogliosissima famiglia letteraria. Si tratta in questo caso di Aubrey (Thomas) De Vere (1814-1902), del quale – a conferma di una carenza più volte stigmatizzata in questa sede – cerchereste inutilmente opere tradotte nell’idioma italico o approfondimenti critici degni di nota in altra lingua, prodotti in tempi recenti e con metodologie ermeneutiche meritevoli di attenzione. 



Anglo-irlandese d’origine; nato in una famiglia appartenente alla Church of Ireland; formatosi in teologia e metafisica al Trinity College di Dublino, De Vere si impose sulla scena letteraria della capitale irlandese fin dal 1832, stringendo rapporti intensi ma discreti con le più significative menti creative dei suoi giorni: su tutti, Wordsworth, Coleridge, Tennyson. Si convertì al cattolicesimo nel 1851 sulla scia di altre celebrate conversioni quali quelle di Newman e Manning. In seguito, dedicò le sue energie intellettuali, gli esiti della sua riflessione in ambito religioso e sociopolitico, le risorse creative della sua scrittura in vari ambiti testuali all’identità culturale e nazionale dell’Irlanda cattolica.



Christmas Eve, 1859 – della quale questa breve nota offre una traduzione inedita con il titolo Vigilia di Natale, 1859 – è un esempio non soltanto della perizia tecnico-poetica di De Vere – cioè di quella raffinatezza nell’arte del sonetto che gli venne universalmente riconosciuta dalla sua epoca – ma soprattutto di un fare poesia non riconducibile tout court alla autoreferenzialità imperante in quegli anni. Il poetare di De Vere era, infatti, ispirato da una sapiente ed esigente riunificazione dell’enciclopedia dell’ars poetandi del suo tempo con una più compiuta esperienza della poesia “che eternamente inculca un Amore che è l’Antitype di tutta l’affettività dell’uomo e della natura”,  per citare quanto lo stesso poeta ebbe a scrivere all’amico Henry Taylor in una lettera del 1855 – dove l’“Amore” definito secondo il concetto biblico di antitype (“antitipo”) è il compimento di quell’“affettività” che lo prefigura (“tipo”).

1 Stanotte, o Terra, un Salvatore germina!
2 Stilla, o Firmamento, la tua dolcezza di lassù!
3 Stanotte è chiuso il ferreo libro del Fato;
4 Aperto stanotte è il libro dell’Amore senza fine.
5 Senza posa da Oriente come brezza muove
6 La gioia nel mondo – ed è brezza che porta un carico
7 di canto vernale su terre finora paralizzate,
8 Fiumi imprigionati dai ghiacci e boschi devastati dall’inverno.
9 Avanzando da Betlemme, verso ovest sull’Egeo
10 Si propaga come notte la stellata Festa Divina;
11 Tutti i regni esultano; ma più alto monta il peana
12 Da quella bianca Basilica sull’Esquilino
13 Sotto il cui tetto, in fulgore di sole vestito,
14 Il Pontefice sofferente resiste – stanotte non triste.

Certo, forse è insolito che la materia lirica di questo sonetto rinunci apparentemente tanto alla presenza evidente di un Io individuale (sul modello, ad esempio, dell’impersonale ed istituzionale soggettività dei poeti elisabettiani), quanto a quella dell’Io comunitario di un popolo (elaborata, ad esempio, dai cosiddetti sonetti politici di Wordsworth). In realtà, rispetto a tali persone poetiche, il “discreto” Io celato che si rivolge a tutto il Creato fin dal primo verso del sonetto di De Vere ha altra natura ed intenzione: ha l’aspirazione sacramentale di interpellare simbolicamente l’umanità intera sull’eterna presenza di Dio nella totalità del mondo reale

Per questo, infatti, il sonetto ricorre alla metafora botanica di un Salvatore che “germina” (v. 1) – cioè che, etimologicamente, “inizia a svilupparsi” – naturalmente dalla Terra nel Mistero di questa Notte di Vigilia. Per questo, inoltre, allo stesso modo, invoca dal biblico “firmamento” le “stille” della sua naturale “dolcezza” (v. 2). Per questo, ancora, il testo poetico ricorre alla similitudine della “brezza” per rappresentare il “movimento” della “gioia” in tutto il mondo (vv. 5-6) – una brezza, questa, proveniente da Oriente (v. 5) che, pur nella sua biblica leggerezza, “porta il carico” (v. 6) di un “canto” latore di vita, annuncio di una primavera vivificante per terre, fiumi, piante sanguinanti per le ferite del Tempo (siano esse da interpretare simbolicamente come inferte sul piano naturale, storico o antropologico). Sempre per questo, infine, tale “gioia” procede “come notte” protesa verso la luce e, così facendo verso Occidente sull’Egeo, coinvolge le diverse genti che incontra nella “stellata Festa Divina” della totalità della Creazione.

Se questo è il Mistero della Notte della Vigilia per Aubrey De Vere, non è difficile comprendere perché “tutti i regni [realms] esultano” (v. 11), giacché, come ha scritto Joseph Ratzinger, “Gesù non è nato e comparso in pubblico nell’imprecisato ‘una volta’ del mito” (L’Infanzia di Gesù, p. 77). E non è neppure superfluo precisare che, in base alla sconfinata polisemia del sostantivo realm, tali “sfere d’esperienza” umana d’ogni tipo e fattura (terrestri e cosmiche, terrene e spirituali, concrete e astratte, umane e naturali, et al.) sono profondamente radicate nell’esperienza cristiana dell’uomo. 

 

Tuttavia, tra tutti questi “regni”, ve n’è uno che non si limita ad accogliere con gioia il “canto vernale” della Vigilia di Natale: al contrario, gli fa eco con un “peana” di ringraziamento (v. 11), in questo modo preavvertendo e preannunciando al mondo la vittoria del Natale sulla “tristezza” dell’umanità (v. 14) e sulla furia cieca della storia (Christmas Eve, 1859 è parte di una raccolta di sonetti intitolata Le Catene di San Pietro: Ovvero Roma e la Rivoluzione Italiana, pubblicata nel 1888). Nel sonetto di De Vere, tale “regno” – nel mondo, ma non del mondo – si incarna nella persona di Pio IX: questo Pontefice, che De Vere incontrò nel 1851, è sì “sofferente” per le nuove Catene di San Pietro imposte alla Cristianità durante quei decenni controversi, ma “non triste” (v. 14) nell’oscurità orante della Christmas Eve. Anzi, la sua figura risplende “nel fulgore di sole” (v. 13) della sua veste e nella “bianca “cornice della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore (quella del miracolo della neve!), situata sulla sommità del Colle Esquilino (v. 12). 

In un suo celeberrimo e corrosivo romanzo (Vita Dura, 1961), lo scrittore irlandese Flann O’Brien (1911-1966) fa dire a un suo personaggio che “Cervantes era l’Aubrey De Vere spagnolo”. Come interpretare questo prestigioso (quanto pindarico) accostamento letterario, segnato dall’immancabile (e non di rado sterile) ironia di O’Brien? Come critica impietosa della natura donchisciottesca dell’esperienza religiosa e culturale di De Vere? Può darsi. Certo che se tale parentela con Cervantes gli avesse consentito di accogliere il Natale chiudendo una volta per tutte il “ferreo libro del Fato” (v. 3) e aprendo per sempre il “libro dell’Amore senza fine” (v. 4), si può star certi che De Vere l’avrebbe riconosciuta senza difficoltà…