Molti hanno lasciato l’Algeria per dirigersi in Francia, poi in Italia, ed è innegabile che alcuni immigrati abbiano un problema nell’affrontare il loro passato, nel parlarne senza tabù. Capita di chiedere lumi sui fatti di sangue degli anni Novanta e la risposta è spesso evanescente o condita da comprensibile rabbia. Ma come soluzione, la rabbia pura e semplice, non è più sostenibile. Ecco perché si può attribuire a questo ultimo lavoro di Souad Sbai (Le Ombre di Algeri, Armando Curcio Editore) una doppia valenza: la prima, rivolta a noi italiani autoctoni, è quella di mostrarci in modo oggettivo, documentato, quasi documentaristico alcuni avvenimenti dell’Algeria post-coloniale. La seconda è la forza di impatto che questo libro può avere sugli algerini: tanto che il principale quotidiano del Paese, Le Soir d’Algerie, ne ha prontamente segnalato l’uscita.
“Se parli, muori; se non parli, muori. Allora parla e muori”. Questa frase – figlia del periodo in cui i fatti sono accaduti – apre il racconto. È la verità-provocazione di un giornalista algerino ucciso nel ’93 perché denunciava la barbarie e l’ambiguità del nazionalismo politico e religioso della “democrazia” algerina. Souad Sbai parte da questa citazione per risvegliare ciò che è stato sepolto nella violenza.
Sfogliando Le Ombre di Algeri si capisce che c’è stato un ante, da cui non si può prescindere per decrittare le cronache nordafricane che ci riguardano da vicino. È necessario ripartire dagli anni 90. Tutto è cominciato lì. Le violenze e le torture, il processo di cosiddetta riconciliazione del popolo algerino in cui, più che il germe di una democrazia multipartitica, era evidente il legame tra i metodi di aggressione deliberata in nome di un islam fondamentalista – che hanno contraddistinto gli anni 90 – e la totale perdita di autorità da parte dello Stato e dei politici del tempo, in favore della repressione violenta. Ecco come si è arrivati alla guerra civile cosiddetta, attraverso un mix di connivenza politica e cellule di matrice islamica che compivano atti di terrorismo in nome di una democrazia paradossalmente laica. Una matrice di stampo salafita, che ritroviamo oggi esportata, mutata nella forma, ma non nella sostanza.
Prima la guerra era chiara, dice una giovane donna dell’epoca, ora è ambigua. Fratelli che uccidono altri fratelli. Episodi come l’eccidio di Benthlha chiariscono come l’islam più intransigente, proclamatosi modello, abbia cominciato a eliminare chi voleva mantenere quel po’ di laicità che il dominio francese aveva istillato nella società algerina. Invece un repulisti in nome dell’islam è stato attuato contro gli stessi algerini. Avevano l’unico torto di non essere estremisti, rigidi, chiusi su se stessi come le milizie che rastrellavano le città casa per casa. L’Algeria del compromesso ha cancellato tutto ciò che di buono aveva lasciato il colonialismo, di cui si è già molto parlato.
L’Europa è stata a guardare e l’indifferenza prosegue tuttora. Un esempio? In Algeria si è votato per il rinnovo del Parlamento e l’interesse dei media è stato nettamente inferiore a quello per i Paesi limitrofi. Le domande sgorgano naturalmente. È sufficiente chiedersi perché l’Algeria non abbia avuto la sua Primavera araba. Si scopre invece, nel libro, che il Paese l’ha già vissuta la sua Rivoluzione. Contro un processo basato sull’idea di un nazionalismo islamico che negli anni 90 ha azzerato ogni forma di moderatismo e di libertà. Ma di quale islam stiamo parlando? Sbai visualizza fenomeni quali il terrorismo e le alleanze tra gruppi e cellule legatesi poi alla galassia di al Qaida. Metodi di repressione violenta e assenza di dialogo. Il resto è storia. Poco nota, ma ora disponibile a un pubblico di moderni Averroè.
Il libro aiuta anche a capire perché l’Algeria è piombata nel buio di una repressione feroce, anziché diventare il fiore all’occhiello del Maghreb, viste le risorse energetiche di cui disponeva e dispone. Perché − e come − milizie fuori controllo abbiano distrutto la modernità e annichilito il germe di una fragile democrazia cominciata con la “Rivolta del Couscous” dell’88. Se qualcosa oggi non funziona, se quel germe è stato divorato dal verme della violenza prima di sbocciare, bisogna ripartire da lì. Con onestà, affrontare vecchi fantasmi, che sotto forma di rabbia possono soltanto deviare le analisi sull’attualità. Questo lavoro di ricerca, senza intenti propagandistici, è per Sbai un modo per farsi meglio leggere in Italia. E per gli algerini, l’opportunità di tornare ad ascoltare se stessi. Senza più rabbia.