Nelle campagne ondulate che si distendono intorno alla nostra capitale, dove gli edifici della città moderna avanzano in modo caotico, sostituendosi agli ultimi relitti superstiti delle antiche civiltà del passato, una troupe cinematografica è in fermento per realizzare un film sulla storia della Passione. Lo scenario è paradossale, tra il grottesco e l’onirico. Le parole e i gesti sguaiati delle comparse chiamate a reimpersonare la vicenda suprema che ha segnato il destino del mondo si mescolano ai maldestri tentativi di rappresentarla tramite quadri viventi che replicano le linee delle deposizioni di Rosso Fiorentino e di Pontormo, accompagnandosi ai versi incandescenti di Iacopone. Il tutto sotto la regia del grande Orson Welles, flemmatico capitano a disagio nel tenere sotto controllo la ciurma indisciplinata che alterna il lavoro per la nobile impresa agli ameni conversari in perfetto stile romanesco.



È questo lo sfondo immaginato da Pasolini, nel 1963, per il celebre mediometraggio La ricotta, concepito in origine come terzo episodio di un film in cui l’opera del geniale critico della moderna omologazione culturale figurava al fianco dei contributi di Rossellini, Godard e Gregoretti. Nel cuore del frammento pasoliniano, resta memorabile la scena del surreale dialogo tra il regista, sprofondato nella sua classica seggiola, e un giornalista, interprete della comune opinione del politicamente aggiornato, che si fa avanti, pieno di ossequio formale, per intervistarlo.



Dopo la serie di convenzionali domande a cui il regista si lascia sottoporre con sorniona ironia, esplode la sorpresa di un contrattacco che ribalta completamente il modo di guardare al compito dell’artista (e dell’intellettuale) contemporaneo. Da una parte sta il gossip delle chiacchiere che si sciolgono galleggiando alla superficie dei problemi. Dall’altra, il fendente di una verità radicale, nella cui forza incisiva viene alla ribalta il pensiero stesso del creatore della finzione su pellicola: cioè di Pasolini in persona.

“Io sono una forza del Passato”: è lo slogan che il regista annuncia all’esterefatto interlocutore, còlto in contropiede. Aggiunge che è il titolo di una poesia. Spiega che, nella sua prima parte, il poeta “ha descritto certi ruderi antichi di cui nessuno più capisce stile e storia e certe orrende costruzioni moderne che invece tutti capiscono”. Siamo davanti a parole che riproducono come in uno specchio la medesima scena in cui è collocata l’invenzione cinematografica di cui si è spettatori: una poesia-denuncia, dentro il film che racconta il compiersi di un altro film su un dramma reale, come momenti tutti legati in una catena che unisce il passato lontano al presente più vivo. Poi, prendendo in mano un libro che reca sulla copertina l’emblema di un altro famoso film di Pasolini, Mamma Roma, il regista comincia a declamare solennemente, dal punto in cui – lui dice – l’autore del testo, evocato con un chiaro simbolo allusivo, “attacca così”:

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o sulle Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti del Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.

È una rivelazione commovente quella che si spalanca se ci si lascia colpire dalla forza in un certo senso profetica dei versi. Ovviamente, le parole sono proprio parole del regista di Mamma Roma. Con la data del 10 giugno 1962, l’intero componimento ricompare, con minime varianti, nella raccolta Poesia in forma di rosa, uscita l’anno successivo a quello della Ricotta, nel 1964, e da lì è confluito nella collezione generale dell’opera poetica pasoliniana, offerta nei Meridiani di Mondadori (Tutte le poesie, I, pp. 1098-99).

Qui il brano finale letto da Welles si ricongiunge con lo stupendo avvio per contrasto dell’invenzione poetica, nel film soltanto accennato. Lo scatto era stato dato, in effetti, dalla visione, risplendente di luce, di un “rudere, sogno di un arco, / di una volta romana o romanica”, scovato “in un prato dove schiumeggia un sole / il cui calore è calmo come un mare”. In un clamoroso segno monumentale, era l’imprevedibile epifania di una sontuosa bellezza perduta che si elevava a sigillo di un mondo umano, di un “uso” e di una “liturgia”, ormai “profondamente estinti”, ridotti al silenzio dall’avanzata del progresso, spazzati via da una bruciante “modernità di fuoco”, con le sue reti di strade brulicanti di traffico, con i suoi ammassi di “migliaia di persone” ridotte a poveri “pulcinella”, che “si incrociano pullulando”, scuri in volto, sopra “accecanti marciapiedi”, “contro / l’Ina-Case sprofondate nel cielo”.

La piovra della città moderna ha fagocitato – e forse non può più essere diversamente – le oasi di ricchezza dello spirito delle antiche abbazie disperse nella pianura un tempo desolata di uomini. Ma nella poesia di Pasolini non c’è solo la registrazione di un mutamento esteriore di paesaggio. Il senso è molto più coinvolgente, molto più decisivo. Nella finzione della Ricotta, completata la sua lettura, il regista interpella l’intervistatore a bruciapelo, mettendolo con le spalle al muro: “Ha capito qualcosa?”. Lui farfuglia banalità approssimative. E Orson Welles lo seppellisce apostrofandolo duramente: “Lei è un uomo medio!”. Non si intende neanche di una mediocrità scusabile, come un dato di fatto sociologico. No: qui entra in gioco, nella mente di Pasolini, lo spettro di una connivenza colpevole, non solo subita ma anche nutrita, assecondata, fatta germogliare. Il povero giornalista finisce con l’essere insultato come fosse “un mostro”, “un pericoloso delinquente”, un “conformista”, un “qualunquista!”.

 

Il dialogo tra i due personaggi non può portare a nessun frutto di vera intesa: è come un dialogo tra sordi. Al “qualunquismo” dell’uomo medio, vittima dei luoghi comuni della “borghesia più ignorante d’Europa”, Pasolini aveva già contrapposto, all’inizio della scena dell’intervista, la depistante dichiarazione messa in bocca alla sua controfigura sullo schermo: ciò che aveva voluto esprimere con il film La ricotta era il suo “intimo, profondo, arcaico cattolicesimo”. Si disegna fin dall’esordio una vertiginosa (e magari anche discutibile) contrapposizione drastica tra la forza di una tradizione ancorata al senso religioso coralmente vissuto in una comunità di uomini e la solitudine strisciante delle folle anonime ingabbiate nella ragnatela delle periferie urbane in gigantesca espansione.

Ma se ci si lascia ferire dalla provocazione scandalizzata del poeta-regista che ci interpella, si comprende che il discorso si può allargare a un orizzonte molto più dilatato. Viene chiamato in causa il bisogno insopprimibile che si può ridestare, anche dentro il deserto della società moderna, spogliata della ricchezza delle sue identità molteplici e livellata verso il basso, di riannodare un legame con il mondo da cui noi veniamo, di cui siamo figli magari inconsapevoli. Guardando alla miseria del vuoto che si è creato intorno a noi, possiamo essere portati fino a risvegliare la nostalgia per qualcosa d’altro che forse non c’è più, o magari è soltanto diventato meno decifrabile, meno imponente e massicciamente condiviso. Le tracce della grandezza del passato da cui discendiamo – ce lo testimonia in chiave paradossale il manifesto poetico de La ricotta, nello stesso momento in cui, alla lettera, sembra negarlopossono ancora catturare chi si dispone ad accoglierle aderendo alla loro potenza pur soffocata di richiamo, come nel sole abbagliante della campagna in cui Pasolini ambienta la sua rievocazione del mondo che abbiamo perduto. Viviamo, sì, sull’“orlo estremo di qualche età / sepolta”. Ci sentiamo orfani di “fratelli che non sono più”. L’“amore” che ci teneva in piedi è stato tradito, sfigurato. Le “chiese”, le “pale d’altare”, i luoghi e le realizzazioni dell’antica civiltà contadina sono stati inghiottiti dalla voragine di una “dimenticanza” che si allarga sempre di più davanti a noi, man mano noi, in direzione contraria, ci lanciamo nel nostro girovagare lungo le vie agitate della nostra vita moderna, “come un cane senza padrone”.

Non possiamo tuttavia rassegnarci a latitare nel “Dopostoria”. Le eredità permanenti non si possono mai cancellare del tutto. La memoria del passato è un fascino che ancora può tornare a sedurre. Quando riesce a spaccare la crosta dell’indifferenza programmata per l’“uomo a una dimensione”, schiacciato sulle prospettive ridotte della realtà manipolabile e del tornaconto immediato, l’energia della memoria si trasforma in un invito caloroso a ripopolare la terra bruciata che i distruttori della “tradizione” hanno creato per fare spazio alle “magnifiche sorti e progressive” di un umanesimo solo orizzontale, appiattito e amputato, minacciosamente anti-umanistico.

Il filo estremo di speranza che, nonostante tutto, Pasolini lascia intatto sotto la coltre del suo pessimismo antimoderno (“Io sono una forza del Passato…”) vale per il fascino prestigioso dei millenni della tradizione cristiana: non possiamo impunemente gettarla alle nostre spalle, lanciandoci senza più ormeggi verso l’ignoto. Ma il discorso non può riguardare solo i patiti di un “arcaico cattolicesimo” di retroguardia. Vale, più in generale, per ogni forma della ricchezza umana di una civiltà da cui tanti cattivi maestri, alleati con i padroni della secolarizzazione consumistica e della rottura individualista dei legami, hanno cercato di strapparci. Sono stati i profeti negativi di una desolazione alla fine raggelante. Sul suo cammino, hanno seminato distruzioni e rovine che sono l’esatto equivalente di quei ruderi di pietra fra i quali, come Pasolini, possiamo rischiare di aggirarci bloccati dallo spavento di un “feto adulto”, che non ritrova più il volto sereno della madre da cui ha tratto la sua origine, reso orfano per sempre. Non è detto, però, che questa sia la fine obbligata. Dal letargo di una morte, sappiamo che si può anche risorgere.

Può essere una metafora, cruda ma altamente significativa, per difendere il senso dell’utilità civile, per noi, oggi, di ogni tipo di storia, cioè di ogni legame ricostituito con la realtà che ci ha generato.