Il rapporto tra la storia e la politica, come è noto, è sempre un legame simbiotico e oppositivo. Tutti gli storici sanno benissimo, o dovrebbero sapere, che la ricerca storica non dovrebbe mai rispondere a quella domanda propria della sfera politica, cui prodest?, ma soltanto cercare di spiegare, attraverso il “lavoro di un modesto artigiano”, le cause profonde, i nessi culturali, politici ed economici che definiscono un determinato processo storico. D’altro canto, però, tutti gli uomini politici, di qualunque estrazione partitica, nelle loro narrazioni sono soliti riferirsi ad eventi storici, grandi e piccoli, per spiegare, in qualche misura, la loro origine, la loro funzione e, in definitiva, la propria identità.
Questo rapporto, così complesso, tra pensare ed agire, tra essere e fare, ha sempre generato, e genera tutt’ora, un’infinità di equivoci semantici, di sovrapposizioni simboliche e di rappresentazioni sociali della realtà in cui viviamo. Una realtà che, a poco, a poco, si distacca progressivamente da quella “verità” a cui tutti dicono di rifarsi – anche Pietro Barcellona nella sua recente lettera al Sussidiario ha fatto riferimento alla “verità” – fino a diventare una sorta di compromesso simbolico basato essenzialmente sul consenso sociale e, soprattutto, sull’egemonia culturale di un attore pubblico, non per forza politico, su un altro.
Che cos’è la verità?, chiese Ponzio Pilato a Gesù durante l’interrogatorio nel pretorio. Se per i cristiani questa risposta è, o dovrebbe essere, una risposta sufficientemente semplice, diventa invece un quesito assolutamente non banale quando gli storici si soffermano ad indagare la realtà politica novecentesca, la quale, su questo rapporto controverso tra storia e politica, ha visto edificare le più importanti religioni politiche del secolo scorso. Tutti i regimi totalitari del XX secolo, infatti, hanno fondato la loro escatologia politica su un rapporto mitico e sacrale con il racconto storico dal quale essi traevano le premesse simboliche e culturali per il loro obiettivo finale: quella palingenesi sociale da cui sarebbe scaturito l’uomo nuovo redento e purificato dai residui arcaici e premoderni del passato.
In particolare, il comunismo leninista, inteso sia come regime che come ideologia diffusa nel mondo occidentale, si trasformò, sin da subito, in una visione soteriologica, in un’aspettativa messianica di liberazione dell’uomo e, in definitiva, in una religione politica. Una para-religione laica che aveva i suoi riti e la sua struttura chiesastica-assembleare, i suoi dogmi e i suoi luoghi della memoria e che, soprattutto, come aveva intuito efficacemente François Furet, era diventata “un credo attraverso la storia”. “L’illusione comunista”, scriveva lo storico francese, aveva fatto della “storia il suo pane quotidiano” che riusciva ad “integrare di continuo nel suo credo” tutto quello che accadeva. Un’ideologia, dunque, potenzialmente universalistica che poteva modellarsi ad ogni piega della società, raccogliendo e inglobando ogni sussulto di critica anti-sistema, e che aveva una capacità impareggiabile di rappresentazione e, quindi, di costruzione della realtà.
Da questo punto di vista, nella storia repubblicana del nostro Paese, l’intellettualità comunista, assieme ad una foltissima compagnia di ventura ad essa contigua, ha svolto un ruolo formidabile e ineguagliabile nel saper costruire dei “modelli forti di interpretazione storica” nonché nel saper fornire della chiavi di lettura degli avvenimenti più importanti della storia nazionale. Questa innegabile capacità interpretativa ha dato luogo ad una lunghissima serie di rappresentazioni sociali della realtà che, però, avevano come scopo ultimo sempre e soltanto quello della legittimazione politica.
Il riferimento fatto da Barcellona, nel suo intervento, al ruolo storico del Pci o, per meglio dire, usando un linguaggio d’epoca caro a tutti i documenti ufficiali di partito, alla “funzione nazionale” e alla “necessità storica” del Pci all’interno del sistema politico italiano, infatti, altro non è che la reiterata riproduzione di un topos narrativo costruito con grande sapienza politica da Togliatti nel primo dopoguerra, avallato e plasmato da storici e intellettuali negli anni Sessanta e Settanta, rimodellato e aggiornato, infine, da Berlinguer fino a diventare, gramscianamente, senso comune diffuso tra una larga fetta della società italiana. Un topos che dipingeva il Pci come un partito necessario per la classe operaia, storicamente inserito nella migliore tradizione politica italiana – tanto che Togliatti riuscì ad acquisire, nel patrimonio culturale, persino Cavour e la destra storica – e, soprattutto, un baluardo della democrazia, ovvero un argine contro ogni deriva reazionaria e populista, dal fascismo alla legge truffa, che aveva dato un contributo eccezionale nella redazione della Costituzione. In sintesi, dall’equivalenza tra antifascismo e comunismo scaturiva la democraticità del Pci, mentre dal nesso identità/costituzione nasceva l’italianità del partito di Togliatti e Berlinguer.
Da questa narrazione storica, che, ovviamente rimuoveva tutte le pagine buie di quell’esperienza, a partire dal legame del Pci con l’Urss e dal rapporto Togliatti-Stalin nella cosiddetta “svolta di Salerno” del 1944, sono scaturite una lunga serie di mitologie politiche e nuove codificazioni simboliche. Non ultima quella del “patriottismo costituzionale” oggi molto in voga nel ceto intellettuale e resa ancor più celebre dallo show di Benigni.
Ma la questione di fondo, il rapporto tra storia e politica, e tra ciò che è stato raccontato e ciò che è stato rimosso, rimane al centro della questione. Soprattutto per quel che concerne l’influenza del comunismo nella storia d’Italia. Qualche anno fa, proprio su questi temi, sorse un interessante dibattito che non ha avuto, però, la diffusione che meritava. Barbara Spinelli parlò di un “patto dell’oblio” tra i vecchi militanti del Pci e i post-comunisti. Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin parlarono del “silenzio dei comunisti”, il silenzio di chi non aveva ancora elaborato il lutto per la fine del Pci e di chi non era riuscito a ripensare la propria storia. Aldo Schiavone, infine, prendeva di petto la questione, invitando a “fare i conti” col comunismo perché coloro che erano stati comunisti in Italia avevano il dovere di dar conto di cosa era accaduto, mentre dopo il crollo del muro di Berlino era “avvenuta un’autentica rimozione del comunismo dalla coscienza del Paese e dal suo profilo civile”.
Una rimozione storica intellettualmente non più sostenibile, di cui ancora oggi si avverte il peso ingombrante e che, in definitiva, finisce per limitare l’agire politico dello stesso centrosinistra. Il quale viene fondatamente percepito, da una larga fetta dell’elettorato italiano, soltanto come il vecchio Pci rimodulato in un nuovo contenitore politico, di cui però si conservano le antiche strutture (le sedi locali di partito, le feste dell’Unità, gli Istituti Gramsci), il radicamento sociale (l’Italia centrale) e soprattutto gli uomini (Bersani e Vendola). Non avendo fatto i conti col proprio passato, il centrosinistra attuale incontra un deficit di percezione pubblica estremamente importante che ne limita non solo l’acquisizione del consenso, ma anche la credibilità politica nazionale ed internazionale. Ed è da questo nodo irrisolto, da questa ambiguità culturale di fondo, e non certo da immaginari complotti reazionari, che nascono, eventualmente, le sue difficoltà.