Nel 1900 si tenne a Parigi il secondo Congresso internazionale dei matematici. Fu un evento di importanza epocale perché in un periodo delicatissimo per la scienza – in cui l’edificio del riduzionismo classico mostrava le prime evidenti crepe – si confrontarono due visioni della matematica molto diverse, espresse da due scienziati tra i massimi del periodo: il francese Henri Poincaré e il tedesco David Hilbert. Il discorso del secondo, dal titolo “I problemi della matematica”, era proiettato nel futuro. Non a caso iniziava con queste domande: «Chi di noi non sarebbe felice di sollevare il velo dietro cui si nasconde il futuro; di gettare uno sguardo ai prossimi sviluppi della nostra scienza e ai segreti del suo sviluppo nei secoli a venire? Quali saranno le mete verso cui tenderà lo spirito delle future generazioni di matematici? Quali metodi, quali fatti nuovi schiuderà il nuovo secolo nel vasto e ricco campo del pensiero matematico?».
La mira ambiziosa di Hilbert era proprio di dare una risposta a queste domande, ed egli lo fece elencando 23 problemi che avrebbero dato materia per la ricerca matematica per almeno un secolo. In realtà, l’obiettivo ambizioso nascondeva una preoccupazione. Hilbert era fautore radicale del metodo assiomatico in matematica. Di più: egli mirava a un programma di riduzione della matematica alla logica deduttiva. Tale programma passava attraverso la dimostrazione che il pilastro di tutta la matematica, ovvero l’aritmetica, poteva essere enunciato a partire da un sistema di assiomi in modo tale da essere internamente coerente (“autoconsistente”). Il cosiddetto programma formalista di Hilbert mirava a dimostrare tale coerenza interna che avrebbe ridotto l’intera matematica a un sistema logico-deduttivo senza alcuno spazio per l’intuizione, se non come un corredo accessorio ma non indispensabile.
Ma Hilbert era consapevole del fatto che lo svuotamento di contenuto della matematica – la sua riduzione alla logica formale – comportava il rischio enorme di legittimare sviluppi privi di valore empirico e persino di senso, procedendo per via deduttiva in modo meccanico a partire da un qualsiasi sistema di assiomi arbitrario. Per questo, egli ebbe cura di enunciare 23 grandi problemi di importanza centrale e derivanti da questioni centrali per la ricerca scientifica, su cui i matematici avrebbero dovuto impegnarsi nel futuro invece di disperdersi in rivoli insignificanti.
Il suo “antagonista” era Henri Poincaré, grandissimo matematico e scienziato universale oltre che futuro autore di libri di cultura scientifica “popolare” di qualità e chiarezza insuperabile, come La scienza e l’ipotesi, Scienza e metodo, Il valore della scienza. Poincaré era uno scienziato di stile ottocentesco, più legato alla tradizione, molto attento a conciliare le novità con il tessuto esplicativo complessivo della scienza classica. La sua visione è bene espressa da questa frase contenuta in un articolo del 1912: «Le teorie antiche poggiano su un gran numero di coincidenze numeriche che non possono essere attribuite al caso; noi non possiamo separare quello che esse hanno unito; non possiamo più rompere i quadri, dobbiamo cercare di piegarli».
Ma la sua ripulsa del dogmatismo gli faceva aggiungere che «i quadri non si prestano sempre ad essere piegati». È su questo crinale sottile e instabile tra tradizione e innovazione che Poincaré si muove nella sua conferenza dal titolo significativo “Sul ruolo dell’intuizione e della logica in matematica”. Egli non disconosce il valore dell’approccio assiomatico e del rigore logico. Nel suo discorso dichiara senza mezzi termini che «l’intuizione non può darci il rigore e neanche la certezza», i quali possono essere garantiti soltanto dal ragionamento logico, mentre l’intuizione può ingannare. Pertanto, oggi, dichiara Poincaré «il rigore assoluto è stato raggiunto». Fin qui egli sembrerebbe andare d’accordo con Hilbert. Ma egli si chiede se quanto precede significa che la matematica sia riducibile alla logica. E qui la risposta è radicalmente opposta a quella di Hilbert: «La logica pura condurrebbe soltanto a tautologie; essa non può creare nulla di nuovo; da essa soltanto non può uscire alcuna scienza».
Insomma, è bene che la logica controlli ex post la validità delle deduzioni matematiche, ma la matematica non è logica. E, per dimostrarlo, Poincaré esemplifica quattro modi di ragionamento matematico di cui soltanto il primo è riconducibile alla logica deduttiva: l’affermazione che due quantità uguali a una terza sono uguali tra di loro; il principio di induzione matematica che è un classico caso di giudizio sintetico a priori, in senso kantiano; due assiomi geometrici, di cui l’uno si giustifica con l’appello all’intuizione e l’altro è una definizione mascherata. La matematica lavora con materiali siffatti, che vanno molto oltre la logica formale, e senza di essi non esisterebbe e non sarebbe neppure utile e sensata. Chi ha avuto ragione, alla luce degli sviluppi storici, tra Hilbert e Poincaré?
Di certo, la visione intuizionista del secondo è stata sconfitta sul breve periodo, il dominio dell’assiomatica si è esteso incontrastato e Hilbert ha proposto un modo di fare scienza basato sull’organizzazione metodica della ricerca ben più produttivo dell’individualismo dello scienziato francese, il quale fu superiore a Hilbert come matematico ma non lasciò una scuola. Oggi lo studio qualitativo delle equazioni differenziali mediante il computer costituisce una realizzazione di un programma di Poincaré da lui intuito a fine Ottocento con carta e penna. Scoprì fenomeni come quello del “caos deterministico” quasi un secolo prima che se ne constatasse il rilievo nella matematica applicata (per esempio, in meteorologia).
Ma se Poincaré restò un isolato, senza allievi e senza scuola, il programma logicista di Hilbert fu pesantemente sconfitto non soltanto dalla dimostrazione del teorema di Gödel che seppellì per sempre la speranza di ridurre la matematica alla logica, ma dal declino sul campo della pratica assiomatica nella ricerca, verificatosi dopo gli anni 1980.
Per questo, l’intuizionismo di Poincaré ha avuto la sua rivincita completa, anche se i detriti dell’assiomatica logicista continuano a ingombrare il terreno, in particolare nell’ambito dell’insegnamento della matematica, dove c’è chi si ostina a credere che la teoria degli insiemi sia la porta d’ingresso della matematica e coniuga in modo pasticciato un astrattismo inutile e fuorviante con una visione empiristica della matematica che niente ha a che fare con un approccio intuizionista e finisce invece col perpetuare le vecchie abitudini ai calcoli meccanici e a una visione “pratica” della matematica che la isola da contesto della cultura e persino della scienza.
Difatti, se v’è qualcosa per cui Poincaré è profondamente attuale (come, del resto, il nostro Federigo Enriques) è la sua visione “culturale” della matematica. Era una visione culturale che lo spinse a scrivere i libri sopra citati che costituiscono un modello di divulgazione ad alto livello e di analisi dei fondamenti della scienza e della matematica, al contempo. Allora – in un mondo in cui la cultura era privilegio di strati molto più ristretti – quei libri vendettero decine di migliaia di copie: triste confronto con la condizione di oggi, che è dovuta al fatto che il formalismo e il pragmatismo sono riusciti a rendere la matematica un oggetto alieno e sgradevole. Senza una visione autenticamente intuitiva – che, ripetiamo, si oppone non solo al formalismo logico ma anche al pragmatismo – Poincaré scriveva che «le giovani menti non riuscirebbero a iniziarsi all’intelligenza delle Matematiche, non apprenderebbero ad amarle e vi scorgerebbero soltanto una vana logomachia; e soprattutto, non diventerebbero mai capaci di applicarle».