Nel nostro tempo Enea sembra essere poco interessante. Il poema virgiliano ha dovuto pagare lo scotto della strumentalizzazione del ventennio: ne è derivato un giudizio generico quanto banale di imperialismo, di servilismo, di arte piegata al potere (la gloria di Augusto, in questo caso), senza tener conto del fatto che difficilmente un artista, pittore, scultore, musicista o poeta, ha potuto prescindere dal committente, e che la grandezza sta proprio nel trasfigurare la materia e nel piegarla ad esprimere una realtà che la trascende. A Virgilio è toccato di maneggiare un mito, un personaggio, noto a grandi linee ma connotato in modo poco significativo: era già in Omero, un parente della casa regnante di Troia, orgoglioso della sua genealogia ma crucciato dall’essere in ombra rispetto ai cugini; la sua storia di superstite e fondatore, simile a tanti altri miti di fondazione, era diffusa in età ellenistica e nei primi poemi latini. Non è quindi strano che sia divenuto oggetto di un nuovo poema epico, anche perché la povertà di mitologia latina non offriva molti altri temi: certo il nome di Iulo, figlio di Enea e nipote di una dea, che richiama quello del capostipite Ilo e della stessa Ilio, non poteva non attrarre Augusto, entrato nel gens Iulia per adozione. Il poeta si è trovato dunque a ricantare una storia conosciuta, che doveva comprendere la celebrazione del princeps e del futuro di Roma: ma ne ha fatto qualcosa di assolutamente diverso.
Il destino troverà la strada e Apollo, se invocato, sarà presente: è difficile non provare emozione davanti a queste parole, fra le più alte di un autore pagano. Enea è stato svegliato all’improvviso nella notte dell’invasione e della strage, con un compito incomprensibile per un eroe appassionato della propria terra: non combattere, scappare, andarsene verso una meta oscura portando gli dèi della città; ha dovuto lasciare che la moglie rimanesse al servizio di una dea, e solo le sue parole amorose e severe l’hanno convinto a partire; nel dolore per un compito che non capisce ha raccolto intorno a sé una folla di esuli, facendone un popolo. Ha peregrinato cercando segni di una meta sfuggente, aggrappandosi a piccole scelte provvisorie, riduttive, e agli antichi affetti reincontrati per caso. Ma la frase che il profeta Eleno gli dice, la frase che abbiamo citato, illumina tutta la storia. Il destino è buono e non lascia per sempre senza meta, ciò che ordina aiuta a compierlo; il dio profetico attende solo di essere pregato, e sarà un dio presente.
Accadrà uno sviamento, una colpa condivisa. La vicenda con Didone è un altro dei motivi per cui Enea è malvisto: gli si rimprovera, in sostanza, di aver preferito l’obbedienza alle superiori leggi dell’amore. Ma il giudizio del poeta è chiaro e pressante: sono due capi responsabili dei loro popoli e li hanno traditi, Cartagine ha interrotto il fervore della sua costruzione, i compagni di Enea attendono oziosi un viaggio che sembra ormai irrealizzabile, la regina chiama matrimonio un’unione senza futuro, Enea in abiti stranieri sorveglia una città che non gli è destinata.
Gli dèi si fanno presenti, con un richiamo che Enea non può disattendere: ha peccato, si è dimenticato di un compito e di una promessa che non riguardano lui solo, ma un popolo presente e una storia futura: deve ripartire, e questo dice con urgenza alla donna, ricordando a se stesso e a lei una verità che entrambi già conoscono.
Il destino di Enea è quello dell’homo viator, un destino di obbedienza e di sacrificio. Parte dalla sua terra verso una nuova terra promessa che non conosce; suscita un popolo per condurlo verso un futuro che lui non vedrà, che sarà al di là della sua vita, rinuncia agli affetti, incontra defezioni fra la sua gente stanca di un viaggio in cui non crede più. Come ad Abramo, come a Mosè, gli è chiesto molto, fatica, autorevolezza, fiducia. Tuttavia il destino misterioso, il fatum che è la parola di cui nessuno conosce l’origine, non solo lo guida, ma lo precede, lo fa giungere atteso: atteso nel Lazio, atteso in Etruria, atteso con affetto e ricordi lontani dagli Arcadi.
Di nuovo è il peccato degli uomini ad opporsi: la gelosia, l’infedeltà, il rifiuto dello straniero. Ma è anche l’angosciosa domanda che il pagano, pur desideroso di credere, si pone sugli dèi, sulla loro credibilità, sulla loro comprensibilità, a fare di una di essi, Giunone, una nemica: l’uomo antico si ferma su questa soglia, su questo perché, sullo scandalo del giusto perseguitato. Nel poema è il comando di Giove, garante del destino, a fermare Giunone e la guerra nel Lazio: superate le differenze nascerà un popolo nuovo, come ricorderà Dante in una straordinaria mescolanza di amici e nemici: (quella umile Italia) per cui morì la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute.
E il futuro di Roma, dell’impero romano? Virgilio ripercorre in vario modo la storia passata, trasformandola in profezia, proiettandola in avanti: un futuro di potenza, certo, ma anche di unificazione, di diffusione del diritto, di una pace che, se pure è quella che dà il mondo, crea le premesse per la diffusione dell’annuncio, per un’altra diversa unità.