Se voleste raccontare la vita quotidiana di un malato di SLA, costretto alla carrozzina, all’alimentazione artificiale, alle difficoltà di deglutire, di respirare, concentrereste la vostra attenzione sui piedi?  Eppure sono i piedi di Mario Melazzini a catturare l’obiettivo e la sensibilità di Emmanuel Exitu, regista coraggioso e  raccontatore paziente, che con Io sono qui ci mostra la storia di un uomo, e insieme di un malato, medico di fama, colpito dalla SLA nel fiore della sua spavalda voglia di emergere, nel pieno del successo e della carriera, uno “che voleva fare tutto da sé”.



Il documentario, allegato ad  un libro firmato dallo stesso Melazzini, è un cofanetto edito da San Paolo, e testimonia “un’inguaribile voglia di vivere”. Perchè tutto il resto è curabile se c’è la certezza che la vita è bella, che la vita è un dono, nonostante  una malattia impietosa e terribile. Emmanuel Exitu traccia sette giorni di appunti della vita di Mario Melazzini, “medico, malato, uomo”, oggi alla guida di “Nemo”, centro clinico all’avanguardia per le malattie neuro-degenerative presso l’ospedale Niguarda a Milano e voce autorevole della medicina, voce cara ai tanti malati che imparano da lui a sperare.



Primo giorno:  c’è il letto, coi piedi in primo piano; e poi il reparto, con la sedia a rotelle che costa più di una macchina, che non riesce più a usare, troppo tecnologica, ci sono le infermiere tornate abbronzate dalle vacanze. Si fece notte, e fu mattino. Un altro giorno. Con gli ostacoli da superare: i gradini, la stanchezza, quel paziente che non riesce più a parlare, e cui spiegare che “Bisogna riprogrammarsi, all’inizio è dura, ma poi..” poi c’è una tastiera con cui impari a  scrivere veloce, e a comunicare. Si fece notte, e poi mattino, un nuovo giorno. E’ un regista indiscreto, quello che lo segue dalla camera da letto  ai corridoi d’ospedale, nella quotidianità dei rapporti con altri medici e infermieri, con i malati, soprattutto: per tutti un sorriso, un sostegno vero, che non tollera vittimismi, che sa diventare rabbioso, quando si tratta di chiedere attenzione e giustizia, eppure copre, sopporta, è paziente. In troppi, anche tra i più autorevoli in campo scientifico, pensano che certe vite non valgano la pena di essere vissute, che sia meglio lasciarle spegnere così, senza guardarle, senza volerle guardare.



Melazzini ricorda l’esimio primario che gelidamente  gli sentenziò: “Lei ha la Sla, e io mi fermo qui”. Mentre con il dolore fisico, ha scoperto, si può affrontare il percorso professionale con un valore aggiunto, si può fare della sofferenza un’esperienza reale. Ricorda la disperazione, e la voglia di farla finita, anticipando la malattia. “Che arroganza, che presunzione, che paura”. Una clinica in Svizzera aiutava a sbrigare la pratica, “con una freddezza, un’indifferenza, che mi fecero domandare: Voglio davvero questo?”. Poi ci fu la solitudine, cercata nelle montagne amate. Ma la montagna sa capire e guarire l’anima con lo stupore della bellezza, che dilata i polmoni e ricorda che vivere è comunque una fortuna, una meraviglia. Ci sono tre figli, a dare la carica, c’è Saverio, che immobile a letto sa parlare con gli occhi e continua a tifare la sua Juve,  a volersela godere come prima; ci sono parenti  dei malati, tenaci, audaci, forti; c’è la pittrice che per gridare la sua passione di vivere usa i colori. Ci sono  i piedi, appunto, con l’alluce mai fermo che  dice vivacemente “io sono qui”. E gli occhi così vividi, curiosi, indomiti che suggeriscono: “Siamo Suoi”.