Cinquant’anni fa il latino cominciava ad essere eliminato dalla scuola media inferiore. La voce più autorevole che si levò a difesa di un insegnamento propagandato già allora come discriminatorio e inutile fu quella di Concetto Marchesi, allora senatore del Pci. Nel 1956 con un articolo su l’Unità aveva preso le distanze dalla posizione ufficiale del suo partito: “Il latino, si dice, è un peso morto. Il fastidio o il gradimento, l’interesse o la noia, l’equilibrio o il disordine dipendono dall’uomo che insegna. Si può ridurre il pane al maestro, si può levargli anche la libertà, ma non la facoltà di penetrare nell’animo dell’alunno e richiamarlo alla luce e alla gioia della conoscenza. Non pochi compagni di elevata cultura dissentiranno; ma so che degli operai molti concordano con me; e non me ne stupisco, perché proprio di là nasce l’aspirazione verso una maggiore ricchezza del mondo interiore dello spirito umano”.



Scorrendo la sua Storia della letteratura latina, chi dà valore all’indagine del passato attraverso le voci dei grandi può ampiamente raccogliere spunti di notevole interesse. Se molto abbiamo acquistato in altri campi, qualcosa abbiamo perduto, trascurando gli antichi.

Qualche esempio. Lo studioso espone le caratteristiche dell’epica arcaica, argomento secondario nella didattica; ma il lettore attento trova questo passaggio: “L’arte ha bisogno di uomini commossi, non di uomini riverenti. I grandi avvenimenti possono dare fondamento agli imperi, ma non suscitare le opere d’arte, le quali debbono la vita al genio dell’individuo; le storie dei popoli, rispetto all’arte, sono più anguste che il mondo interiore di un solo uomo: e la voce della poesia è più viva e più vera che le voci di tutte le storie.



In Lucrezio Marchesi coglie non solo il poeta che si affatica nel tradurre in latino la dottrina del proprio maestro Epicuro, ma anche l’uomo che avverte l’insufficienza di una filosofia che vede con lucidità il male, ma non raggiunge il porto della serenità: “Verso quella riva tutte veleggiavano le navi dell’antica sapienza per varie ed opposte vie e tutte annunziavano di essere arrivate. Vascelli fantasma giunti in porto senza più ciurma”.

Rispetto a Cicerone afferma che “gli manca quel nulla, quel vuoto apparente da cui scaturisce la creazione dell’artista o la rivelazione del pensatore. E di Virgilio fa il cantore della nostalgia e del desiderio della pace: egli crede alla “felicità degli uomini umili, senza sapienza filosofica, che lavorano e pregano Dio. In lui vi sono elementi di santità, che è quello spirito che rinnova la vita, quella vastità spirituale che comprende tutte le cose, dal filo d’erba alla stella, quel desiderio di una bontà unificata del mondo.



Infine, a partire dalla diversa scrittura di tre prosatori, Marchesi apre orizzonti che raramente sono reperibili in studi più recenti: Lo stile di Seneca, come anche quello di Tacito, è stato giudicato barocco, perché manca di architettura classica, perché non è contenuto a forza nella semplicità di una impeccabile e impassibile armonia lineare, perché complica, spezza, martella l’idea. Ed è così. Il loro stile non è quello di Cesare, che scrive gelidi e limpidi come diamanti i bollettini delle sue guerre contro i nemici; è lo stile drammatico dell’anima umana che è in guerra con se stessa: e se la prosa di questi due sommi e così diversi scrittori è barocca, ciò è perché l’anima umana è barocca.