Quando Raskolnikov, in Delitto e Castigo di Dostoevskij, confessa a Sonja l’omicidio compiuto, ella subito esclama: «Vi siete allontanato da Dio». Quando l’uomo manca in qualsiasi modo nei confronti dell’altro, la sua mancanza non ha appena il tratto dello sgarbo o della violazione del “contratto sociale” o della interruzione di una armonia artificiale. Ogni mancanza dell’uomo nei confronti dell’uomo ha lo spessore del peccato, della ribellione a Dio e della rottura dell’amicizia con Lui.



Ma essendo asimmetrica la relazione dell’uomo con Dio, una volta che l’uomo ha mancato non gli è possibile alcuna vera riparazione. In realtà, nella Rivelazione, la prima mancanza, la matrice di ogni successiva e possibile mancanza si trova nella trasgressione del patto che Dio aveva stabilito con l’uomo e non nella relazione con l’altro uomo. Anche per questo ogni crimine, ogni delitto che l’uomo commette contro un altro uomo, reca in sé il tratto della prima disobbedienza. Non solo, ma nel peccare l’uomo oltre ad andare contro il suo Creatore, si sottomette ad un altro che lo soggioga e lo tiene in scacco. Di più. È proprio quest’altro che lo induce a mancare e in quell’agire l’uomo è sempre, in una certa misura, estraniato da sé: è lui che agisce, ma un altro agisce malignamente in lui.



Nel delitto, sia esso grave o meno grave, è presente tutto questo spessore e l’uomo fa esperienza di che cosa significhi la soggezione al male, che, in realtà, è soggezione al Maligno.

E non è tutto qui. Il male che l’uomo compie non solo non è “suo” nel senso che proviene sempre dal maligno, ma anche nel senso che in lui si ricapitola sempre, in misura più o meno grande, il male o il difetto di bene che altri hanno compiuto nei suoi confronti. «Nel peccato mi ha generato mia madre» dice il Salmo di Davide. Così l’uomo si trova al termine di una catena di male e di non bene di cui viene ad essere erede inconsapevole.



Tanto profondo è il mysterium iniquitatis, il mistero dell’iniquità, che l’uomo, da solo, lasciato a se stesso, è impotente di fronte ad esso, e non su di un solo fronte, ma su più fronti. Egli non riesce in nessun caso a ritrovare la sua primeva integrità e innocenza, e non è in grado di rientrare nell’obbedienza a Colui che vuole il suo bene.

Quando l’uomo, posto in questa condizione, si viene a trovare dinanzi ad un tribunale umano, dove uomini come lui sentenziano nei suoi confronti e gli comminano una pena sanzionatoria del suo delitto, egli non si trova ancora di fronte all’entità reale del suo misfatto e alla portata antropologica e teologica di esso. 

Sorge allora l’interrogativo: come potrà quest’uomo iniziare ad intendere il senso delle sue azioni delittuose? Dove potrà attingere luce per far luce sul suo stato reale e non solo sulla sua posizione sociale? Chi lo trarrà fuori dal carcere della sua condizione di alienazione e di perdita di innocenza? L’uomo infatti non vive se non nell’innocenza.

Neppure l’interiorizzazione della sanzione e l’immedesimazione nella pena che il giudice terreno gli ha inflitto seguendo la Legge degli uomini gli servirà a guadagnare la verità su di sé e sul suo operato. Tanto profondo è il mistero del male, che l’uomo non è in grado di sondarlo. Neppure per prenderne coscienza. Neppure per un atto di mera conoscenza, cui potrebbe non seguire il pentimento e il ravvedimento.

La coscienza e la conoscenza umane infatti non arrivano a scandagliare le profondità non solo del bene, ma neppure del male. È per questo motivo che la tradizione cristiana orientale insegna che il dono della conoscenza del proprio peccato è un dono divino e che esso è più grande del dono di risuscitare i morti. Senza questo dono l’uomo continuerebbe a giacere al di fuori della vera consapevolezza di sé.

Un’altra tradizione insegna che l’uomo nell’arco della sua vita non viene a conoscere neppure l’entità intera di uno solo dei suoi peccati e che se essa gli fosse squadernata non potrebbe sussistere in vita per la potenza di sconvolgimento che essa possiede. E questa è un’altra misericordia divina, insieme alla prima.

A questo stato miserevole di cose, nelle quali ogni uomo è parimenti coinvolto, viene in soccorso la bontà divina. Essa solleva l’uomo da questo sprofondo della fossa di morte. Si potrebbe supporre, e alcuni lo fanno, che questo riscatto gratuito e benevolo lasci da parte la pena, ma non è così. Il Signore castiga anche quando perdona e altre volte castiga, lascia l’uomo in preda a se stesso, in preda all’uomo e in preda al Nemico, per consentirgli di ritornare a Lui, che è già pronto al perdono.

Nella Rivelazione il perdono non solo non si contrappone alla pena, ma va sempre insieme con essa. Il caso dell’impunito non è presente nella Rivelazione ebraico-cristiana.

Tuttavia, chi ha incontrato il Signore e l’ha conosciuto, non attesta in primo luogo la Sua giusta retribuzione, quanto la Sua infinita bontà che non è assente anche dalla Sua giustizia. In Dio anche la punizione è sotto il segno della misericordia. «Laddove ha abbondato la colpa, ha sovrabbondato la grazia».

È a motivo di questa sovrabbondanza che Gesù Cristo chiede di essere visitato nei carcerati. «Quando ti abbiamo visto in carcere?».