Un breve racconto di Beppe Fenoglio, Il gorgo, narra con asprezza sobria, arcaica, ricca di inflessioni dialettali, la sventura che si abbatte su una famiglia contadina delle Langhe alla fine dell’Ottocento. L’io narrante è il figlio più piccolo, che a soli nove anni capisce la decisione di suo padre di farla finita perché non può più sfamare i suoi.



In quel tempo stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a far la guerra d’Abissinia.
Quando nostra sorella penultima si ammala. Deperivamo anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il Signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo più grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella.
Come se non bastasse, si aggiunse il batticuore per Eugenio, dal quale non ricevevamo più posta. Tutte le mattine correvo in canonica a farmi dire dal parroco cosa c’era sulla prima pagina del giornale, e tornavo a casa a raccontare che erano in corso coi mori le più grandi battaglie. Cominciammo a recitare il rosario anche per lui, tutte le sere, con la testa tra le mani.

Uno di quei giorni, nostro padre si leva da tavola e dice con la sua voce ordinaria: – Scendo fino al Belbo, a voltare quelle fascine che m’hanno preso la pioggia.
Non so come, ma io capii a volo che andava a finirsi nell’acqua, e mi atterrì, guardando in giro, vedere che nessun altro aveva avuto la mia ispirazione: nemmeno nostra madre fece il più piccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo, e sì che conosceva il suo uomo come se fosse il primo dei suoi figli.
Eppure non diedi l’allarme, come se sapessi che lo avrei salvato solo se facessi tutto da me.



È un legame senza parole, tutto contenuto dentro il cuore, che mette il bambino di corsa sui passi di suo padre; egli lo vede, gli urla di tornare a casa, ma il figlio non si cura di disobbedirgli. Segue il suo impulso, che vuole la vita, anche a costo delle botte.

Lui si lasciò raggiungere e quando mi sentì al suo fianco con una mano mi fece girare come una trottola e poi mi sparò un calcio dietro che mi sbattè tre passi su.
Mi rialzai e di nuovo dietro. Ma adesso ero più sicuro che ce l’avrei fatta ad impedirglielo
.
Eravamo quasi in piano, dove si sentiva già chiara l’acqua di Belbo correre tra le canne. A questo punto lui si voltò, si scese il forcone dalla spalla e cominciò a mostrarmelo come si fa con le bestie feroci. Non posso dire che faccia avesse, perché guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita dal petto, e soprattutto perché non mi sentivo di alzargli gli occhi in faccia, per la vergogna di vederlo come nudo.



Come il padre vuole impedire al figlio di assistere al suo gesto, così il bambino ha pudore della figura paterna così deturpata dalla disperazione e dall’ira. E questo legame non detto li salva.

Ma arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era subito lì, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle d’un serpente. Mio padre, la sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il petto per urlare. In quell’attimo lui ficcò il forcone nella prima fascina. E le voltò tutte, ma con una lentezza infinita, come se sognasse. E quando l’ebbe voltate tutte, tirò un sospiro tale che si allungò d’un palmo. Poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che rincasava da una festa con una sbronza fina.
Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo.

Nel ritorno a casa, c’è ancora silenzio tra i due. Ma il passo e il gesto del padre dicono tutto.