«Mani pulite? Lo scopo non era quello di perseguire singoli reati, ma di ripulire la società, secondo una concezione giacobina della politica». Roberto Chiarini, docente di Storia contemporanea nell’Università statale di Milano, torna sul tema di Mani pulite, l’inchiesta che ha spazzato via i vecchi partiti e cambiato la storia d’Italia. Appunto, i partiti. Forse, secondo Chiarini, si è parlato troppo del ruolo dei giudici senza riflettere adeguatamente sul rapporto tra cittadini e partiti politici. 



Professor Chiarini, per una volta non cominciamo dai giudici ma dai partiti.

Tangentopoli fu il detonatore, ma il malcontento degli italiani verso i partiti, lo Stato, la classe politica in generale era in crescendo da vent’anni. Lo attestano tutte le indagini fatte in proposito. Si Mani pulite non deflagrò a ciel sereno, c’era già il classico rumore di sottofondo che prepara lo sconquasso generale. La stessa Lega si può considerare come un segno del disfacimento.



I partiti arrivano a Tangentopoli in grave crisi, dunque. Eppure, si pone sempre mente all’operato dei giudici, mai a quello dei partiti.

In nessun’altra democrazia, come in quella italiana fino agli anni 70, i partiti hanno avuto un delega illimitata. La lealtà dei cittadini nei confronti dei partiti era talmente forte che i partiti si potevano permettere tutto e nessuno diceva nulla. La controprova è che anche negli anni 50 ci furono scandali, ma questi vennero sempre riassorbiti per due fattori. Il primo era l’identificazione del cittadino nel partito di riferimento: una «chiesa» nella quale l’italiano si riconosceva, e alla quale nulla chiedeva se non di essere confermato nella sua «fede». Il secondo fu il miracolo economico.



Di cui i partiti furono gli artefici.

Sì. Fu una rivoluzione materiale e morale straordinaria. Tanto che il macontento nei confronti della politica nacque in contemporanea con il rallentamento della crescita e con il diffondersi di una condizione di sofferenza sociale che lo Stato, diversamente da quanto era riuscito a fare fino agli anni 70, non riuscì più a governare. Qualcuno dice, non senza qualche ragione, che Tangentopoli è figlia di Maastricht.

Cioè la fine della piena discrezionalità nella spesa pubblica?

A Maaastricht, dal punto di vista che ora ci interessa, Andreotti e De Michelis assoggettarono il Paese ad un vincolo monetario che di fatto impediva di raccogliere consenso così come la nostra classe politica aveva fatto fino ad allora, attraverso elargizioni e trasferimenti al sud alle varie categorie. Da quel momento in poi la politica e «quelli che stanno al governo» vengono percepiti come un ostacolo. Non a caso la ribellione, clamorosa, avviene attraverso la Lega, cioè nelle aree ex democristiane dove la società bianca aveva nella Dc l’interfaccia e il canale con Roma. A quel punto nel nord ci si chiede: cosa ce ne facciamo della Dc? Governiamo noi. Meglio: governiamoci.

E arriviamo così al «clima» propizio per Tangentopoli.

I tempi erano maturi. Pensiamo allo scandalo Lockheed, al discorso di Moro in Parlamento, a quel suo «noi non ci faremo processare». Non disse che non c’era stata la tangente, ma che la Dc non poteva essere chiamata in giudizio. Se l’immagina che una cosa del genere potesse dirla Forlani, quindici anni dopo?

Come reagiscono i partiti nel 1992 quando scoppia lo scandalo?

In virtù del loro glorioso passato, credono di essere intoccabili. Tutti ragioniamo con schemi mentali precedenti, perché è estremamente difficile inventarne di nuovi, quando le cose accadono. Scandali ce ne sono stati – pensano –, ma noi abbiamo il potere; perderemo l’1, il 2 per cento al massimo, ergo non cambia nulla. C’è da dire che si trattava di una classe politica che non si era creata spazi di cambiamento. Il gioco politico era molto stretto, dominato dall’idea del pentapartito.

E la magistratura?

Nell’azione dei magistrati ci sono diversi fattori. Innanzitutto i pm non sono degli alieni, appartengono anch’essi alla cultura del loro tempo. La magistratura degli anni 50 era entrata in carriera negli anni del regime: uomini d’ordine, anche se di sinistra. Ma tra gli anni 50 e gli anni 90 c’è di mezzo la grande opera di costruzione di un’egemonia gramsciana nella società, il fatto che in tutti i poteri che sono l’innervazione di una società moderna la cultura di sinistra diventasse egemone.

A proposito di Tangentopoli e di Mani pulite si può parlare, secondo lei, di un «patto» tra magistratura ed ex Pci?

«Patto» è un termine improprio, fa pensare ad un accordo «notarile» che certamente non ci fu. Ci fu invece una classica convergenza di fini, quella per cui il nemico del mio nemico è mio amico. Nel 1987 c’era stato il referendum sulla responsabilità civile dei giudici, una batosta, perché passò a furor di popolo e c’era il timore che la magistratura finisse sotto il tallone della politica. Questo accrebbe senz’altro l’antagonismo della magistratura. Essendo un potere «altro» dalla politica, per definizione individuava nei partiti di governo – non certo nel Pci, che era all’opposizione – il suo antemurale.

E poi intervenne lo scollamento tra cittadini e partiti che prima ha descritto.

Anch’esso non è estraneo alla logica dello scontro tra poteri. Gli italiani andarono di corsa a votare i referendum sulla preferenza unica, nel 1991, e sul maggioritario, nel 1993, non perché volessero quel sistema, ma per andare contro i partiti che quel sistema non volevano, scusi il gioco di parole. Si intravide in quelle iniziative un gioco non per riformare la politica, ma per scomporre i giochi dell’altro.

Sui giornali nei giorni scorsi la parola è tornata ai protagonisti. Uno per tutti, Gerardo D’Ambrosio: «abbiamo perso l’occasione di sconfiggere la corruzione». Lei come interpreta queste dichiarazioni?

È l’ammissione che lo scopo non era quello di perseguire singoli reati, ma di ripulire la società. È una concezione giacobina della politica, quella di una minoranza che si attribuisce una funzione salvifica e fa tutto ciò che è in suo potere per realizzarla. Quei magistrati si sentirono i cavalieri dell’apocalisse. Ci ricordiamo di quando Borrelli andò in tv a dire che il decreto Conso (il cosiddetto «colpo di spugna» che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti, ndr) non si doveva fare? Scalfaro non firmò e Amato si dimise. Certo il pool aveva il sostegno delle piazze. Ma chiedo: riusciamo a immaginarci un procuratore della Repubblica che nel 1949 dà istruzioni a De Gasperi?

Eppure, la determinazione politica nella conduzione delle indagini resta uno dei punti più controversi. Pensiamo ai cambiamenti intervenuti in un solo biennio: indebolimento del quadripartito, successo della Lega nord, elezioni di Scalfaro, caduta di Amato, governo tecnico di Ciampi. C’è una regia?

La dinamica delle società contemporanee è così complessa che non si possono inanellare cambiamenti così rilevanti come se fossero responsabilità di una sola mano. I grandi poteri possono avere una parte nell’orientare in certi momenti il flusso del fiume, ma non si può governare l’insieme perché sarebbe troppo complicato. Una volta prendere San Pietroburgo voleva dire avere in mano la Russia, ma se lei oggi – come nel ’92 – prende Palazzo Chigi, che cos’ha preso? Al massimo, ha preso casa.

Ma qualcuno si è dato da fare?

Vede, in una società come la nostra basta un potere in negativo – basta cioè non avere il sostegno di un potere, tra i molti all’opera – che lo scenario muta, si complica. Non si hanno prove, ma c’è il sospetto che né Craxi né Andreotti fossero più troppo amati dagli americani. Anche questo è un elemento su cui riflettere. Prima del 1989 l’Italia era un contrafforte europeo contro il comunismo, nel 1992 si ritrovava ad essere semplice vaso di coccio. Anzi, era un Paese che aveva perfino aiutato Gheddafi…

(Federico Ferraù)