«Di Andy Wahrol (1928-1987, ndr) si potrebbe fare una mostra tematica al mese, tanto il materiale è vasto. Di retrospettive ne abbiamo viste abbastanza, è ora di cambiare» dice Gianni Mercurio del pop artist americano. Mercurio è il curatore delle ultime (più riuscite) mostre italiane su Warhol, alla Triennale di Milano (2005) e al Chiostro del Bramante di Roma (2008). «Appena un quinto del materiale che si trova nell’Andy Warhol Museum di Pittsburgh (Usa) è stato catalogato, esiste un lavoro enorme ancora da fare» dice Mercurio. Wahrol è una delle personalità più poliedriche del novecento, spiega l’esperto in questa intervista, e non lo si può comprendere senza toccare la sua profonda, ma nascosta, religiosità.



La serialità è l’invenzione di Warhol, eppure sembra il contrario della singolarità propria dell’opera d’arte.

Il rifiuto dell’unicità sembra in effetti una delle sue più «diaboliche» invenzioni, non so se consapevole o no, ma con Warhol l’inconsapevolezza è assai remota perché in lui di casuale c’è ben poco. egli si appropria ed estremizza il famoso concetto di Walter Benjamin della riproducibilità. Benjamin era di matrice marxista e l’annullamento in lui dell’aura di unicità propria dell’opera d’arte in qualche modo era bilanciata in favore della popolarità dell’arte, che doveva raggiungere le classi meno abbienti. Warhol fa la stessa cosa ma al servizio, in qualche modo, del capitalismo. Spoglia della matrice marxista la molteplicità di Benjamin, e la riveste con un matrice di tipo capitalista.



Ma prima di moltiplicare, che cosa c’è al fondo della sua scelta? Qual è il rapporto di Warhol col prototipo?

Le prime opere di Warhol dove egli sperimenta la riproducibilità sono da un lato i suoi ritratti, dall’altro le famose icone, come Marylin Monroe, Liz Taylor, Elvis Presley, e via dicendo. Ma in questa sua ispirazione c’è anche una matrice religiosa. Di conseguenza, nemmeno la riproducibilità si può spiegare senza questo fattore. Pensiamo alla sua Ultima cena (1987, ndr). Quando Alexandre Jolas gli propose di lavorare sul Cenacolo di Leonardo da Vinci, non si poté fare a meno di pensare all’ennesima figurazione dell’epopea postmoderna. È presente, ma non è l’unico motivo ispiratore; non è nemmeno il più importante.



Qual è la sua opinione di quell’opera di Warhol?

Warhol non voleva confrontarsi con Leonardo, ma con il Cristo. Sapeva che non sarebbe ormai vissuto molto più a lungo, e già da qualche tempo stava studiando e riproducendo ossessivamente quell’immagine del Cristo. Basti pensare che ci sono ad oggi circa più di 200 dipinti, pezzi unici, da lui disegnati su questo tema. Non è molto noto che Warhol è l’artista americano che ha prodotto il maggior numero di opere a sfondo religioso nell’arte Usa.

Quindi a Warhol non interessa tanto l’icona del Rinascimento…

No, molto di più il tema religioso per eccellenza, la fine della vita. Il centro del capolavoro di Leonardo è un uomo consapevole di essere alla fine, in procinto di sacrificarsi. È Cristo il paragone, il prototipo di Warhol.

Andy Warhol aveva un madre molto religiosa. Quanto ha influito nella su arte?

In modo assolutamente fondamentale. La madre, religiosissima, era originaria di un paesino tra la Slovacchia e l’Ucraina, dove nacque la corrente religiosa uniate, tentativo di ricongiungere la chiesa ortodossa con quella cattolica, da cui il nome. Nelle opere di Warhol – ecco il prototipo e la sua ripetizione – troviamo la suggestione delle icone ortodosse che Warhol, da bambino, insieme alla madre, quasi quotidianamente osservava nella chiesa uniate di Pittsburgh. Questa lettura si legittima anche per le opere successive; anzi credo che quasi tutta l’opera di Warhol abbia sotteso un «secondo» significato, intimo e nascosto, di tipo religioso. Lo si può documentare anche per le scelte apparentemente più «lontane», come le lattine Campbell’s. Oggetto di consumo, caratteristiche cromatiche? Anche. Ma Warhol e la madre, la domenica, partecipavano solitamente ad un lunch che si teneva nella sacrestia, insieme ad altri fedeli, e il piccolo Andy serviva a tavola. E la zuppa di pomodoro era molto frequente.

Secondo lei Warhol ha voluto dissacrare l’arte rendendola prodotto consumistico, o ha piuttosto inteso democratizzarla per renderla accessibile a tutti?

No, direi che non si è mai proposto questo scopo. Chi ha voluto fare quello che lei dice, raggiungendo l’obiettivo, è stato Keith Haring: l’arte doveva essere per tutti e capace di «invadere» qualsiasi oggetto. Warhol rimase invece intimamente aristocratico. Le sue profonde contraddizioni esistenziali facevano il resto: basti pensare che sosteneva molte organizzazioni caritatevoli, ma non volle mai che si sapesse.

Che cosa vuol dire creare una mostra su Andy Warhol?

Warhol lo si cita quasi sempre a sproposito, come simbolo dell’artista di cui è più facile produrre a piacere mostre scadenti. Ora, è vero che siamo pieni di mostre in cui si usa il grande nome senza alcun progetto a monte, raffazzonando il solito materiale per fare pubblico; solo dispiace che si associ a queste operazioni, puntualmente, il nome di Andy Warhol. Penso che qualche esempio del contrario lo si sia potuto vedere. E poi, mi lasci dire che di Warhol si potrebbe fare una mostra tematica ala mese. Il materiale esiste ed è in quantità enorme…

Dice davvero?

Ho frequentato gli archivi dell’Andy Warhol Museum di Pittsburgh e posso dire che forse solo un quinto del materiale in deposito è stato catalogato. È uno sconfinato deposito di memorie, oggetti, dipinti che offrono sorprese continue. Warhol era un collezionista compulsivo, non solo conservava e inscatolava una infinità di oggetti, ma filmava di continuo e registrava tutte le telefonate. Ci sono milioni di ore di girato non catalogate, milioni di ore di telefonate che tra l’altro mi è stato impedito di ascoltare perché contengono cose molto personali su personaggi ancora oggi importanti.

Ci dica l’idea per una mostra a tema su Warhol.

Una mostra a tema? Il concetto di celebrità, per esempio. Già negli anni 70 Warhol aveva intuito l’estetizzazione della società, che si è trasferita in Europa negli anni 90 e di cui oggi vediamo la deriva, dalle chirurgie plastiche ai reality.