Pare certo che sia Il tramonto della luna l’ultimo canto di Leopardi; i versi finali sarebbero stati dettati dal poeta all’amico Ranieri addirittura dal letto di morte. Ecco la prima strofa:

Quale in notte solinga
sovra campagne inargentate ed acque,
la ‘ve zefiro aleggia,
e mille vaghi aspetti
e ingannevoli obietti
fingon l’ombre lontane
infra l’onde tranquille
e rami e siepi e collinette e ville;
giunta al confin del cielo,
dietro Apenino od Alpe, o del Tirreno
nell’infinito seno
scende la luna; e si scolora il mondo;
spariscon l’ombre, ed una
oscurità la valle e il monte imbruna;
orba la notte resta,
e cantando con mesta melodia,
l’estremo albor della fuggente luce,
che dinanzi gli fu duce,
saluta il carrettier dalla sua via;
tal si dilegua, e tale
lascia l’età mortale
la giovinezza
.



Dopo il disinganno di A se stesso e il sarcasmo della Ginestra, la poesia estrema ripercorre temi cari al Leopardi di ogni stagione: l’elegia della giovinezza, unica età felice dell’uomo, la compagnia silente della luna, l’oscurità riempita dal canto.

La morte era adombrata nella nostalgia con cui Saffo guardava il cielo nell’imminenza del suo suicidio: Placida notte e verecondo raggio della cadente luna; qui il tema è ripreso in modo più maturo per le vicende della vita e per l’ininterrotto lavoro sulla parola. Il lessico è tutto ripreso da Petrarca, lo sguardo è quello assorto degli Idilli. La lirica evoca nelle successive due strofe l’inganno della giovinezza, troppo breve per mantenere le sue promesse, il sopraggiungere dell’età matura, con la sua estraneità al mondo, fino alla vecchiaia, caratterizzata dal dolore più acuto, poiché in essa è incolume il desio, la speme estinta.



L’ultima strofa della lirica, a cui Leopardi consegna il suo congedo umano e poetico, è costruita non sull’analogia, ma sull’opposizione tra il ritmo armonico della natura e la caduta tragica dell’esistenza nel buio della sepoltura:

Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all’occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete: che dall’altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar nuovamente, e sorger l’alba:
alla qual poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà per voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d’altra luce giammai, né d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l’altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura.

Anche Catullo, poeta giovane e irrequieto, aveva espresso in un carme, prima di abbandonarsi all’ebbrezza dell’amore, la consapevolezza della sorte opposta toccata alla natura e all’uomo: Il sole può calare e ritornare, per noi quando la breve luce cade resta il sonno di una eterna notte.



Più attuale di quanto non sembri questa percezione della morte nella frenesia dei nostri anni.

Leopardi arricchisce il realismo antico, che conosceva e apprezzava da grande filologo qual era, di una impareggiabile leggerezza, che rende ancora più desolato il suo desiderio di vivere, più desolata l’accettazione della sua prossima morte.