Può anche capitare di vedere assoldato, nell’agone spesso animoso del dibattito politico, il vecchio Pericle, la cui data di morte si colloca a quasi duemilacinquecento anni fa. La sua figura è stata più volte evocata nelle ultime settimane, in pubbliche performance di suoi discorsi, in articoli di riviste e giornali, in pagine di blog. In qualche caso lo si è voluto assumere come sostenitore autorevole di posizioni che si vorrebbero difendere, in altri casi lo si è preso come bersaglio di una polemica superficiale e gretta. Prima di procedere sarà utile una breve premessa.
Nel 431 a.C. scoppia la guerra del Peloponneso, che vede di fronte le due città leader della Grecia, Atene e Sparta, diversissime, anzi antitetiche fra loro sia per organizzazione sociale, sia per cultura e tradizione. La guerra si protrae per ventisette anni e ha un esito disastroso per Atene. Al termine del primo anno Pericle, come primo stratego di Atene (la massima carica della città), pronuncia, secondo l’uso tradizionale, il discorso funebre sulle salme dei caduti: questo discorso, che ci è stato tramandato dallo storico Tucidide (presente di persona all’avvenimento), finisce per essere un manifesto della cultura, della società e della tradizione ateniese. Pericle esalta il modo di vivere di Atene, la sua organizzazione di città che offre la massima libertà e favorisce la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, ospitale con gli stranieri e attenta ai valori della cultura.
Siamo in guerra, e in una situazione difficile: Atene ha deciso di accogliere all’interno delle sue mura una massa di cittadini residenti nel contado, per evitare di esporre persone e beni alle scorrerie distruttive del potente esercito di Sparta. Una popolazione enorme si è ammassata nel ristretto spazio della città, portando con sé pochi beni e tanta nostalgia di casa, con un degrado facilmente immaginabile delle condizioni alimentari e igieniche: presto sarebbe scoppiata una grave pestilenza, di cui sarebbe stato vittima lo stesso Pericle.
Su questo discorso si è appuntata la recente polemica, rimbalzata sui giornali anche per il contemporaneo comparire di un libro e di un saggio sull’argomento: il libro è di Luciano Canfora, Il mondo di Atene (Laterza, 2011), il saggio è quello del maître à penser, per la verità ormai un po’ appassito, Umberto Eco, pubblicato sull’Almanacco del Bibliofilo e ripreso su Repubblica e sul Fatto quotidiano. Entrambi muovono da un atteggiamento di fondo comune: l’opportunità di considerare la figura di Pericle, e più in generale la politica ateniese, in un contesto critico, spogliandola da certe incrostazioni retoriche che il neoclassicismo prima e l’uso strumentale della classicità poi possono avere depositato su persone ed eventi del mondo antico, dandoci un’immagine idilliaca e parziale di quell’epoca lontana. Una tesi dunque degna di riflessione, con la differenza che Canfora su questa tesi studia e lavora da decenni col piglio e la severità dello specialista, mentre Eco interviene con la classica sensibilità dell’elefante nel negozio di vetrerie, come hanno mostrato, da diverse prospettive, le repliche di uno specialista di storia antica, Emanuele Greco, direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene (sul blog Filelleni), e di un politologo, Luciano Pellicani (sul blog della Fondazione Nenni).
Ci permettiamo due considerazioni. Innanzitutto, il fatto che si possa fare intervenire un personaggio dell’antichità nelle dispute contemporanee mostra la vitalità e il fascino che la cultura antica tuttora possiede. Tuttavia, se da una parte riflettere su figure e idee di epoche passate è sempre un esercizio utile, perché, come insegnavano gli antichi, la storia è maestra di vita ed è “un bene per sempre” (secondo l’espressione di Tucidide), utilizzare strumentalmente le vicende della storia nel contesto, spesso polemico e fazioso, dell’attualità politica rischia di essere fuorviante. La lettura che Canfora propone del mondo classico è, come detto, seria e supportata da documentazione e competenza, ma il punto di partenza al quale lo storico fa perennemente riferimento si basa su categorie ideologiche che sono estranee al mondo antico, e questo finisce per offrire un criterio di lettura unilaterale.
Per tornare al discorso di Pericle, è indubbio che esso contenga aspetti propagandistici, ben comprensibili nel contesto bellico: era necessario fornire agli Ateniesi motivazioni per continuare la guerra ed enfatizzare la superiorità ateniese su Sparta. Ma è altrettanto indubbio che esso coglie aspetti e princìpi della “costituzione” ateniese che sarebbe ingeneroso minimizzare o negare. Del resto su quali basi si deve giudicare uno Stato, antico o moderno: sulla base dei valori ai quali si ispira, o sulla base della concreta realizzazione? L’Atene di Pericle è una società democratica non perfetta, come nessuno Stato fu mai perfetto nella storia dell’umanità. Certo, la sua politica estera poté avere delle venature imperialiste (anche se Atene non mirava tanto a occupare territori, quanto a riscuotere tasse da alleati che rimanevano pur sempre indipendenti), certo potevano esservi persone senza diritto di voto o schiavi. Ma potremmo giudicare uno Stato antico alla luce di questo criterio, ricordando che la schiavitù nel mondo occidentale (anche in nazioni permeate da principi cristiani) è terminata nel secolo XIX e che il voto femminile anche in Italia è conquista di pochi decenni fa?
Come scrive Greco nel blog citato, l’Atene antica «è una società aperta, meritocratica (per esplicita affermazione dello storico antico e non per interpretatio modernizzante), con una grande mobilità sociale verticale»: è una città dove gli stranieri hanno meno diritti dei cittadini a pieno titolo, ma possono diventare ricchissimi e potenti e avere prestigio e influenza negli ambienti che contano, e dove un povero disabile può sostenere in tribunale il suo diritto a un sussidio statale. La libertà di parola era tale che lo stesso Pericle e i suoi amici non sfuggirono a tribunali e inchieste: si malignò persino che la sua compagna, Aspasia, un’etera (l’equivalente antico della moderna escort di classe), arruolasse ragazze ateniesi per soddisfare le perversioni di Pericle.
Dice Eco: “Non so se dava pane, ma certamente abbondava in circenses. Oggi diremmo che si trattava di un populismo Mediaset”, che sa ottenere il consenso popolare con “accorte tecniche di persuasione”. Il chiodo fisso dell’antiberlusconismo può accecare, fino a fare perdere il senso della realtà. Pericle favorì la possibilità per i non abbienti di andare a teatro, accollando allo Stato le spese relative: ma il teatro per gli Ateniesi non era svago e disimpegno, bensì momento portante della loro formazione civile e culturale.
Un “circense” di Pericle è il Partenone, e l’atteggiamento degli Ateniesi verso questi circensi fu tanto acquiescente e acritico, che il principale artefice dell’opera fu perseguito a più riprese in tribunale e finì i suoi giorni in esilio. Pericle investì somme ingenti in grandi progetti di bellezza e di educazione. I suoi collaboratori avevano nomi come Sofocle e Fidia, gente che a distanza di millenni collochiamo tra i massimi esponenti letterari e artistici di tutte le età e di tutte le culture. Ricordo anni fa, visitando il Partenone, di avere notato una giovane donna italiana che appoggiata a un muretto era intenta all’uso del telefonino e guardava verso terra: se avesse alzato leggermente lo sguardo, avrebbe visto una delle opere più straordinarie che il genio umano abbia mai creato. Ma è la metafora di tanti intellettuali dei nostri giorni che, fissi nelle loro fantasticherie ideologiche, non sono più capaci di guardare verso l’alto e di vedere la bellezza.