Nel labirinto della vita non siamo noi a cercare l’uscita. È l’uscita che cerca noi. E questo labirinto “altro non è se non la tua, finché è possibile, la tua, finché è tua, fuga, fuga-”, scriveva in Labirinto Wislawa Szymborska, poetessa polacca, Nobel 1996, spentasi l’altroieri a Cracovia all’età di 88 anni. 



Nel 1996 la Szymborska era da noi un’illustre sconosciuta. Oggi è un sorprendente fenomeno editoriale. Di recente il Corriere della Sera ha aperto la sua collana di poesia proprio con una sua raccolta; e il 27 marzo del 2009, nell’Aula Magna dell’Università di Bologna, c’erano 1500 persone a sentirla leggere le sue poesie. Chi non c’era guardi le immagini dell’evento in rete, su Tv book. Mai, neppure in Polonia, una sua lettura poetica si era svolta dinanzi a un pubblico così numeroso. 



Il Nobel è stato la leva iniziale, ma, si sa, il suo effetto spesso dura poco e ne resta traccia solo nelle enciclopedie. Per spiegare le ragioni della sua popolarità potremmo far ricorso alle Lezioni americane di Calvino, e dire che la sua opera incarna idealmente le qualità che lo scrittore italiano preveggeva per la letteratura del nuovo millennio: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Ma lo si può dire anche in maniera diversa. Czeslaw Milosz, anche lui polacco, anche lui premio Nobel nel 1980, nelle sue “lezioni americane” affermava che, da un certo momento in poi, si era creato un abisso tra il poeta e la “grande famiglia umana”, e la poesia del Novecento, elitaria, alienata dalla società, scontava le conseguenze di quella frattura. La poesia della Szymborska è una poesia che riesce a parlare al pubblico: si diffonde con il passaparola, con il libro regalato per il compleanno, con la citazione illuminante. Parla di cose che interessano, o meglio, riguardano da vicino un’ampia fascia di persone, potenzialmente tutti – una poesia cioè a carattere universale. Ma non basta. Non basta parlare della morte – argomento che più universale non ve n’è, giacché il nascere e il morire sono le uniche cose che tutti, polacchi e italiani, poeti e ingegneri, abbiamo in comune – perché ciò che si dice venga capito. Una poesia a carattere universale non sempre è universalmente comprensibile. Ebbene, il segreto della poesia della Szymborska potrebbe essere proprio questo: parla di cose universali in modo universalmente comprensibile. Una poesia semplice? Non necessariamente. Può essere letta a più livelli, come ogni grande poesia. 



Ogni poesia dovrebbe contenere molti punti interrogativi e chiudersi sulla soglia della risposta, coi due punti, scrive la Szymborska nella poesia che dà il nome alla sua penultima raccolta del 2005. Non un punto fermo, non una risposta netta e definitiva, ma due punti: una risposta aperta, che ciascuno può dare. Non è mai didascalica, la Szymborska; non dice come vivere, ma mostra piuttosto com’è la vita, con incanto e stupore. Una vita, la sua come quella di ciascuno di noi, che è “un caso inconcepibile”, una “pausa nell’infinito”, preceduta e seguita da ere ed ere di assenza. Quanto nulla prima del nostro nascere, quanto nulla dopo il nostro morire. La vita, ogni singola vita, ogni singolo istante di questa vita, acquista così un valore inestimabile. Sotto la penna della Szymborska il vecchio topos del theatrum mundi assume i tratti di una recita a soggetto: l’esistenza è uno spettacolo senza prove, un’incessante improvvisazione, “una vita all’istante”:

poter provare prima almeno un mercoledì,
o replicare ancora una volta almeno un giovedì!
Ma qui già sopraggiunge il venerdì
con un copione che non conosco
.

Ogni giorno che viviamo su questa terra è una prima, senza prove e senza repliche, e

qualunque cosa io faccia,
si muterà per sempre in ciò che ho fatto
.

Come vivere la vita allora? La Szymborska non dà ricette: “Come vivere? Mi ha scritto qualcuno a cui io intendevo fare la stessa domanda”. Non dà risposte, ma insegna a porsi domande. Le sue poesie sono spesso piccoli trattati in versi; discorso, più che effusione lirica. Chiarezza, esercizio del pensiero, ironia sono le costanti della sua opera. “Non avermene lingua se prendo in prestito parole patetiche e poi fatico per farle sembrare leggere” scrive: due versi che potrebbero essere posti a epigrafe di tutta la sua opera. 

Nulla è in regalo

Nulla è in regalo, tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo.
Sarò costretta a pagare per me
con me stessa,
a rendere la vita in cambio della vita.

È così che è stabilito,
il cuore va reso
e il fegato va reso
e ogni singolo dito.

È troppo tardi per impugnare il contratto.
Quanto devo
mi sarà tolto con la pelle.

Me ne vado per il mondo
tra una folla di altri debitori.
Su alcuni grava l’obbligo
di pagare le ali.
Altri dovranno, per amore o per forza,
rendere conto delle foglie.

Nella colonna Dare
ogni tessuto che è in noi.
Non un ciglio, non un peduncolo
da conservare per sempre.

L’inventario è preciso,
e a quanto pare
ci toccherà restare con niente.

Non riesco a ricordare
dove, quando e perché
ho permesso che aprissero
questo conto a mio nome.

La protesta contro di esso
la chiamiamo anima.
Ed è l’unica voce
che manca nell’inventario.

(traduzione di Pietro Marchesani)