Tristam Engelhardt è uno dei più noti bioeticisti contemporanei; ed è, inoltre, un autore per certi versi inclassificabile all’interno del panorama spesso così polarizzato di questa disciplina. Personalmente, è un cristiano (un ex cattolico convertito all’ortodossia); ma sostiene (in un senso ambiguo, come spiegherò più sotto, e dunque tutto sommato anche più sgradevole di quello di un Singer) la liceità di aborto, eutanasia, o anche infanticidio.
Tra l’altro, questo carattere delle sue proposte dovrebbe suggerire una salutare diffidenza nei confronti della stucchevole distinzione, soprattutto italiana, tra “bioetica laica” e “bioetica cattolica”: come se dalle posizioni in termini di appartenenza religiosa, o meno, derivasse direttamente una posizione filosofica, e come se un bioeticista che è anche un cattolico si ponga su un piano diverso (superiore? o inferiore?) rispetto a un bioeticista “laico”: in realtà un buon argomento filosofico come tale non è “cattolico” né “laico”.
Ora cerchiamo appunto di vedere, sia pure nei limiti di poche righe, se Engelhardt ha buoni argomenti. Egli ha appena pubblicato un volume per le edizioni Le Lettere, dal titolo Viaggi in Italia. Saggi di Bioetica, e ha in corso una serie di conferenze e presentazioni nel nostro paese. E in questo quadro un suo intervento è apparso pochi giorni fa sulla Stampa. Si tratta di un articolo molto interessante perché consente di capire la radice delle sue discusse posizioni. Egli vi sostiene la situazione di radicale infondatezza delle valutazioni morali, nel contesto culturale contemporaneo. Questo è segnato difatti da una crisi di fondamenti metafisici, che lascerebbe alla prospettiva religiosa il compito di istituire principi come l’eguaglianza o la libertà o l’autonomia. Può solo essere Dio ad aprire un ambito di valori non condizionati, in virtù dell’affermazione di un ordine che deriva da una fonte superiore anziché troppo umana. In realtà, però, in un quadro in cui anche la prospettiva trascendente è andata in crisi, sembra che più nulla possa determinare ragioni fondanti e condivise per tali valori.
Tutto ciò viene argomentato in particolare nei confronti di Richard Rorty, che ha sostenuto in testi molto noti la “priorità della democrazia sulla filosofia”, per riprendere il titolo di uno di questi. Per Rorty ciò significa che i valori di una comunità come la nostra, per quanto “fondati” (tra virgolette) solo a livello di vocabolari contingenti e condivisioni storicamente date, godrebbero di una cogenza autonoma rispetto alle pretese fallimentari della filosofia.
Engelhardt ha il merito non da poco di dissipare questa frequente illusione. L’articolo è molto chiaro e utile in questo senso; e sottolinea in maniera efficace che alcuni principi legati all’immagine che abbiamo dell’uomo e delle sue pratiche possono trovare il loro fondamento decisivo solo nel riferimento al trascendente. Ma appena si conoscono le conseguenze che l’autore americano ricava da questa visione nella sua opera complessiva, sembra che il rimedio engelhardtiano sia peggiore del male rortyano. Il fatto è che la perdita dell’“ancoraggio in Dio o nell’essere” non è solo il fatto cruciale che determina l’attuale panorama etico e culturale, ciò su cui ha pienamente ragione; ma è colto da lui come un dato radicalmente insormontabile che produce una sostanziale equivalenza delle opzioni etiche. Il richiamo al fondamento trascendente diviene paradossalmente l’occasione per sostenere, una volta affermata la sua sostanziale eclissi, la liceità di comportamenti come l’infanticidio: ormai, solo entro una certa forma culturale, per così dire, può avere senso la negatività dell’aborto o dell’infanticidio. Diventa pertanto invisibile la possibilità di una negatività essenziale. La difficoltà a procedere in un quadro pluralista che ha rinunciato ai fondamenti filosofici, e le conseguenze incongrue che ne derivano, sono evidenti proprio grazie alle specifiche posizioni di Engelhardt: pur affermandone personalmente la negatività, egli sostiene la liceità delle pratiche in questione. Da un punto di vista puramente secolare, infatti, né feti né neonati sarebbero, ritiene Engelhardt, pienamente persone.
Insomma l’autore americano parte dall’“evidenza” del pluralismo etico per derivarne non solo l’accomodamento ad esso ma tutto sommato anche una pigra neutralità. Ne derivano interessanti corollari: Engelhardt non ritiene che pratiche come l’aborto debbano essere finanziate con soldi pubblici, nella misura in cui sono controverse e dunque non neutrali; e in maniera affine difende l’obiezione di coscienza nelle professioni sanitarie. Ma la sua posizione resta caratterizzata da un minimalismo teorico sconfortante.
Nonché da una consistente ambiguità, come si diceva. Se da un lato Engelhardt a più riprese ha sostenuto di diagnosticare semplicemente tale situazione che rende impossibile affermare idee di negatività o positività essenziali, e non di encomiarla, la sua analisi si presta ad una ovvia difesa del pluralismo etico di tipo indifferentista. È una lezione da meditare: egli affida alla religione tutto il carico argomentativo, ma nel quadro della società contemporanea la conseguenza non può che essere quella che egli osserva, ossia che chi non crede nel messaggio divino farà più o meno quello che crede utilitaristicamente opportuno, senza che gli altri o la legge morale possano davvero interferire.
In uno scenario in cui il riferimento a Dio appare spesso difficile, rinunciare alle armi della razionalità è mossa dalle conseguenze ulteriormente devastanti, come il panorama contemporaneo non si stanca di ribadire. La posizione di Engelhardt andrebbe utilizzata per argomentare in favore di una ripresa di tali fondamenta, più che come motivo di rassegnata accettazione dello status quo come egli fa: una lettura radicale potrebbe in effetti osservare che davvero l’infanticidio è una conseguenza possibile dell’abbandono delle radici trascendenti. Se veramente oggi è diffuso lo scetticismo nei confronti dei fondamenti metafisici e religiosi, ciò forse andrebbe contestato più che accettato come un esito ineluttabile. Non mancano pensatori che ammettono la crisi, ma ritengono di replicare ad essa secondo una rinnovata ambizione filosofica: proprio perché l’alternativa di Rorty è singolarmente fragile, ma quella di Engelhardt è potenzialmente disastrosa.