John Banville è uno dei nomi di punta del mercato editoriale globale – quello, per intenderci, che legge agevolmente in lingua originale o accosta in traduzione la produzione narrativa di questo scrittore irlandese che ha dichiarato di aver superato da tempo “la sua storia d’amore con l’identità” del suo Paese. E non è l’unico orizzonte identitario, quello nazional-comunitario, che il romanziere di Wexford (1945-) pare essersi lasciato alle spalle: lo stesso trattamento egli sembra riservare anche alla rappresentazione (con annesse concezione, esperienza, ricerca, et al.) dell’“identità personale” – sia essa, ad esempio, quella dello scrittore/autore/narratore (come attesta anche la sua decisione di adottare, all’incirca dal 2006, lo pseudonimo di Benjamin Black per alcune delle sue apprezzabili fatiche letterarie di matrice giallistico/noir), o quella che si respira nello statuto narrativo e narratologico dei suoi personaggi, i cui lineamenti sono da tempo sottoposti ad ardite manipolazioni che, tuttavia, li rendono – ahimè, non di rado – testualmente sfocati, antropologicamente indeterminati, programmaticamente irrisolti e culturalmente sterili.



Emblematico, in questo senso, l’aneddoto che Banville ha raccontato durante la sua apparizione all’edizione 2009 della Milanesiana: “qualche anno fa la Rte, la rete televisiva nazionale irlandese, commissionò un documentario su di me e sui miei lavori, dando enfasi, dietro mia insistenza, all’opera. Il direttore del programma, anch’egli un auteur, era acuto e perspicace e il programma che ne derivò eccellente, meritandosi, a giusto titolo, molti consensi. La prima domanda che mi pose, il primo giorno di riprese, fu, «Chi è ?». Sullo schermo appaio esitante per un lungo istante prima di fornire quella che all’improvviso mi sembrò l’unica risposta possibile. «Beh, vede», risposi, «non c’è nessun John Banville»” (La Repubblica, 23 giugno 2009, p. 42).



È ancora questo – e ci sarebbe da sorprendersi del contrario – l’orizzonte antropologico-letterario di The Infinities, il suo ultimo romanzo, pubblicato nel 2009 e proposto ai lettori italiani come Teoria degli infiniti da Guanda nel 2011 con la competente traduzione di Irene Abigail Piccinini. E qui chi scrive chiede venia per la “piccola impertinenza” che sta per concedersi e che è della stessa famiglia di quella – per così dire, “fuori verbale” e a fin di bene, ça va sans dire – di cui si è scusato di recente il Cardinale Scola durante l’annuale incontro con i giornalisti (28 gennaio 2012). Eccola verbatim: “Speriamo che con quest[i nuovi inserti culturali domenicali] cresca il tasso della critica, anche letteraria e non solo – nel senso nobile e non solo nel nostro paese – perché spesso le recensioni sono diventate un favore che l’amico fa all’amico senza leggere il libro, un po’ di prefazione, poi per quattro/quinti di colonna uno parla un pochino in genere della materia, cita una frase e non è che da lì ti venga molto il gusto di leggere o di non leggere il libro, ma scusate questa è una piccola impertinenza, permettetemela…”.



Sulle orme di un precedente di tale autorevolezza, anche la modesta penna di chi scrive può trovare l’ardire di commetterne una in proprio, ben più lieve e – sia chiaro – comunque mossa dalle migliori intenzioni nei confronti della platea dei pazienti lettori – ammesso che vi sia chi consideri impertinenza segnalare come problematica e, in certa misura, persino fuorviante la traduzione del titolo originale del suddetto romanzo di Banville, The Infinities, con l’italico Teoria degli infiniti

Perché problematica e fuorviante? Perché, in primo luogo, Teoria degli infiniti rende secondario ciò che è sostanziale nella titolazione inglese: la multiforme sostanza delle Infinities (si tratta o no di un sostantivo nella sua forma plurale?), sulla quale si innesta l’altrettanto multiforme esperienza di tali infiniti che è concessa ai personaggi nella loro individuale specificità e limitatezza. La dimensione delle Infinities, intorno alla quale ruota il romanzo di Banville, presuppone un’infinita pluralità di realtà senza limiti spaziali, temporali o di qualunque altra natura umanamente concepibile, e la loro infinita interazione, come afferma nelle prime battute del romanzo il divin narratore Ermes (davvero, direte voi, proprio lui, il messaggero degli dei dell’Olimpo, “figlio del vecchio Zeus e di Maia la donna nella caverna”?!): “non sappiamo resistere a rivelarci a voi di tanto in tanto, in ragione del nostro tedio incurabile e del nostro amor di malizia o di quella persistente nostalgia che coviamo per questo accidentato mondo di nostra fattura: voglio dire, questo in particolare, perché è ovvio che ne esistono infiniti altri come questo che abbiamo fatto e che dobbiamo custodire sempre vigili con ogni cura”.

In secondo luogo, è sicuramente problematico e fuorviante l’ingombrante riferimento alla dimensione teorico-scientifica che campeggia nel titolo dell’edizione Guanda (Teoria [degli infiniti]) e che è del tutto assente – et pour cause – in quello più sintetico dell’originaria edizione in inglese. La critica giornalistica d’ogni latitudine ha – a parere di chi scrive – arbitrariamente accentuato la presunta centralità narrativa della cultura teorico-scientifica in questo romanzo dello scrittore irlandese. E ciò ha prodotto evidenti squilibri interpretativi nella sua lettura, che hanno sortito l’effetto di attribuire al personaggio del vecchio scienziato in coma (ma non – letteralmente – incosciente!) Adam Godley (che geniale incrocio onomastico di primigenio ed eterno!) caratteristiche non del tutto giustificate dal testo: ad esempio, un ruolo di protagonista attivo della narrazione che, a ben vedere, è, in realtà passivo e complementare rispetto a quello degli altri personaggi (quale che sia la loro natura, umana o – olimpicamente – divina); una granitica fede nell’oggettività della scienza che, in realtà, in questi termini non gli appartiene (stando all’autorevole testimonianza di Ermes: “In un’infinità di mondi tutte le possibilità si realizzano; questa è una delle cose che sono state dimostrate da quelli che [il vecchio Adam] chiama spregiativamente i suoi conticini. Lui però non direbbe che è dimostrato, in quanto ogni dimostrazione, secondo lui, è provvisoria”); una altrettanto incrollabile fede nell’oggettività dei cosiddetti dati di realtà o di fatto (che – tanto per cambiare – il solito Ermes mette radicalmente in discussione: “con tutta la famosa finezza delle sue facoltà speculative, la sua è una fede semplice. Dal momento che esistono gli infiniti, anzi un’infinità di infiniti, come ha dimostrato che esistono, devono esserci delle entità eterne ad abitarli. Sì, [il vecchio Adam] crede in noi, ed è convinto che il regno finora immaginato al di là del tempo che ha scoperto sia il luogo dove viviamo”). 

In terzo luogo, infine, il titolo Teoria degli infiniti del romanzo di Banville nella sua versione italiana risulta problematico e fuorviante perché l’italico complemento degli infiniti confina le originarie Infinities nella cornice gnoseologica della loro Teoria. Ed è questo un dato testuale e narrativo ben diverso da quello fornito dal sostantivo nel titolo in inglese, in cui l’infinita pluralità di realtà illimitate (Infinities) trova una qualche delimitazione solo in virtù dell’uso emblematico dell’articolo determinativo The: in questo modo, è dato di pensare che, con ogni evidenza grammaticale, dell’esistenza di tali infiniti, i personaggi del romanzo – e, più in generale, l’umanità di cui sono parte – possano aver comunque avuto una qualche forma di esperienza (benché soltanto intuitiva, parziale, involontaria o inconsapevole) e non soltanto una Teoria – per quanto pregevole e intellettualmente articolata.

Di certo, tra i pazienti lettori di queste brevi note, ci sarà chi avrà reagito sbuffando di fronte alle precedenti minuzie (o inezie?) ermeneutiche, che hanno intenzionalmente celato anche i più essenziali lineamenti della trama del romanzo di Banville. Intenzionalmente, dico, perché, se valgono le premesse che si è appena cercato di offrire come una sorta di “guida alla lettura”, sarà forse meno arduo e più remunerativo immaginare la Arden House in cui si svolgono gli eventi (di cui la critica si affanna ad individuare la collocazione inglese o irlandese…) e la Sky Room in cui è ospitato il vecchio Adam nel suo riposo forzato ma non assente (“un tocco di ulteriore capriccio aggiunto alla casa […], una sorta di nido d’aquila in legno inserito nell’angolo a nordovest – o è a sudest? – dell’edificio principale”); nonché fare la conoscenza della dissonante sinfonia di esseri umani che popolano questi surreali spazi domestici, quasi del tutto ignari degli “immortali” che li incrociano, per i quali “non esiste il Paradiso e neppure l’Inferno, né alto né basso, solo l’infinito qui, che è una specie di non-qui”.

E, una volta faticosamente immaginate le prime e acrobaticamente incontrati i secondi, si potrà provare ad interrogarsi senza fine sulla ragione per cui John Banville – il quale (checché ne possa scrivere l’onnisciente Piergiorgio Odifreddi) resta comunque uno scrittore “irlandese” e non “inglese” (ahi, che lapsus emblematico!) – abbia potuto decidere di  impiegare il suo infinito talento letterario nella creazione di un virtuosistico “novel about maths and myths” (Tom Payne, The Telegraph) – con lo scheletro di “novel of ideas” e la veste di “novel of sensibility and style” (Laura Miller, The New York Times) – al quale affidare il ben più meritevole e ricoeurianamente irripetibile “paradigma della [sua] condizione carnale e finita”.

 

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