Si fa un gran parlare di tecnica in questi giorni. Tecnici sono quelli che, adoperando la tecnica, dovrebbero risolvere i problemi (tecnici) che altri tecnici sembrano aver causato usando le stesse tecniche. Ma che cos’è questa tecnica? E a cosa serve? E può la tecnica da sola risolvere un problema che tecnico non sembra essere?
Per secoli la tecnica ha occupato un posto poco onorevole nell’organizzazione della società e l’opposizione tra forme di conoscenza pratica e la conoscenza filosofica della verità ha rispecchiato la differenza tra schiavi e uomini liberi. Fino al Seicento: “Nel mezzo, vile meccanico; o ch’ io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini”. Così un nobiluomo apostrofa Lodovico nel quarto capitolo dei Promessi Sposi.
La sera del 25 agosto 1609 il mondo volta pagina: Galileo punta un cannocchiale verso il cielo e scopre un mondo che nessuno mai aveva visto prima. Osserva le imperfezioni della luna e del sole, la Via lattea fatta di miriadi stelle e i quattro satelliti che ruotano intorno a Giove. La concezione millenaria che voleva quel cielo perfetto e immutabile era finita.
Ma c’è qualcosa di ancor più straordinario in quel gesto che oggi sembra così ovvio e che invece ha cambiato per sempre, nel bene e nel male, la storia dell’umanità. Il cannocchiale, da poco inventato da un occhialaio olandese, era usato solo per scopi militari o per il divertimento di corte. Galileo aveva grande abilità tecnica e grande senso degli affari: lo perfezionò portandolo a 20 ingrandimenti e lo vendette ai militari veneziani. Poi, sfidando il disprezzo della scienza ufficiale aristotelica (ma non dei Gesuiti, che invece a lungo lo sostennero) con il suo gesto solitario abbandonò la concezione che vuole i sensi naturali dell’uomo come criterio assoluto di conoscenza ed ebbe fiducia nella realtà di ciò che vedeva attraverso il cannocchiale. Il gesto di un solo uomo e la grande rivoluzione scientifica era cominciata.
All’inizio Galileo non era un astronomo, studiava il movimento dei corpi. Sembra si divertisse a metter in imbarazzo i colleghi dell’Università di Pisa. Essi insegnavano che un peso di dieci libbre viene giù da una torre in un decimo del tempo impiegato da un peso di una libbra. Così diceva Aristotele e non si poteva dubitarne. Allora Galileo ebbe un’altra trovata rivoluzionaria: pare che un giorno sia salito sulla torre e, al passare del corteo accademico, abbia gettato il peso da una libbra e quello da dieci; questi arrivarono per terra quasi contemporaneamente. Aristotele aveva sostenuto una tesi che nessuno aveva mai verificato con un esperimento. L’idea di fare questa prova era una novità assoluta.
Questo è il cuore del metodo scientifico: partire dall’osservazione di fatti particolari per stabilire leggi generali che spieghino i fatti osservati e permettano di dedurre altre conseguenze da sottoporre nuovamente a verifica sperimentale. Non si tratta però semplicemente di generalizzare le osservazioni empiriche ma, al contrario, di astrarre da queste abbandonando il piano del senso comune e dell’apparenza immediata.
L’esempio della caduta dei corpi chiarisce bene questo punto. Aristotele diceva che i corpi hanno un principio intrinseco di moto e tendono naturalmente al centro dell’universo, tanto più velocemente quanto più sono pesanti. Quest’idea è più vicina all’esperienza comune ma non regge davanti ad un esperimento scientifico bene interpretato. Il metodo scientifico impone di identificare l’essenziale di un fenomeno, astraendo da tutti i dettagli che tendono a mascherarlo; per la caduta dei gravi bisogna astrarre dalla resistenza dell’aria. Nel vuoto si vedrebbe benissimo che una piuma e un piombo cadono insieme. Ma Aristotele aveva orrore del vuoto. Galileo non disponeva della tecnologia del vuoto, ma riuscì lo stesso a capire come stavano le cose.
Il metodo scientifico si è rivelato nel tempo uno strumento potentissimo per indagare e modificare la natura. L’incarnazione suprema di questo metodo sta in Isaac Newton, che nacque il giorno di Natale del 1642, lo stesso anno della morte di Galileo. Nel breve tempo della vita di questi due uomini la posizione della scienza era completamente cambiata. Galileo dovette combattere tutta la vita e alla fine subì persecuzione e condanna. Newton godette da subito del plauso universale e fu l’uomo più influente del suo tempo. Entrò nel 1661 al Trinity College di Cambridge dove all’inizio fu uno studente povero. Doveva mantenersi facendo il servitore ai docenti e agli studenti ricchi. In seguito godette di una borsa di studio. La pestilenza che si stava diffondendo in tutta Europa raggiunse però Cambridge nell’estate del 1665. L’università chiuse, e Newton tornò a casa per trascorrervi i due anni più fecondi di tutta la sua vita.
Un giorno del 1666, Newton acquistò alla fiera di Stourbridge un prisma di vetro. Un fatto banale ma che doveva avere grandi conseguenze. Questo acquisto diede inizio agli esperimenti che fondano la teoria della luce e dei colori presentata da Newton alla Royal Society nel 1672. Nella tradizione aristotelica si attribuivano i colori agli oggetti. Newton capisce che il colore corrisponde invece a una proprietà della luce. L’esperimento del prisma mostra che la luce bianca non è luce pura, ma consiste di raggi di diversi colori; a ogni colore corrisponde un diverso angolo di rifrazione. Il bianco infine non è un colore reale ma solo un’apparenza sensibile.
Come molti alla sua epoca, anche Newton era interessato al perfezionamento delle lenti per i cannocchiali. Gli esperimenti con il prisma lo persuasero ad abbandonare le ricerche sulle lenti. È impossibile concentrare esattamente la luce bianca in un punto focale con una lente, perché ogni colore ha una distanza focale diversa e questo spiega le frange colorate che si vedono in cannocchiali e microscopi.
Scrive Newton: “Questo mi spinse a prendere in esame le riflessioni, e trovandole regolari, capii che col loro mezzo gli strumenti ottici potevano essere condotti a un qualsiasi grado di perfezione immaginabile, a condizione di trovare una sostanza riflettente levigabile altrettanto accuratamente del vetro, e capace di riflettere altrettanta luce quanto il vetro ne trasmette, e di riuscire anche a conseguire l’arte di conferire ad essa una forma parabolica”.
Nel 1668 Newton costruisce un telescopio a riflessione levigando da sé gli specchi in bronzo bianco. Nella seduta dell’11 gennaio 1672, il telescopio di Newton fu presentato ai soci della Royal Society. Il successo fu tale che nella stessa seduta Newton fu acclamato fellow. Era presente a quella seduta anche il re Carlo II (altri tempi!).
Ma questi racconti di storie passate possono ancora interessarci? Vediamo. Il progresso tecnico del cannocchiale di Galileo non era un vero progresso scientifico ma soltanto una miglioria dovuta all’abilità pratica di Galileo. Il progresso tecnico del telescopio di Newton è invece una illustrazione perfetta del metodo scientifico. Newton osserva ed esperimenta con la luce; formula una teoria della luce e dei colori e capisce che non si può evitare l’aberrazione cromatica del cannocchiale neanche levigando le lenti a perfezione. La sua teoria della luce gli indica invece che un telescopio costruito concentrando la luce con specchi parabolici può essere migliorato quasi indefinitamente. E infatti i telescopi a riflessione si usano ancora oggi in tutte le bande dello spettro elettromagnetico; anche le antenne paraboliche, che infestano i tetti delle nostre belle città, funzionano secondo lo stesso principio.
Il vero progresso della tecnica viene dunque dalla comprensione profonda di un fenomeno e non dalla cultura del fare, ed è affetta da miopia la politica di oggi quando decide di sostenere solo ricerche applicate (quelle che, si crede, permetteranno di guadagnare tanti soldi!) tagliando senza scrupoli la ricerca fondamentale: non esistono ricerche applicate, esistono solo applicazioni della ricerca.
La riduzione alla concretezza, comunque la si voglia chiamare, fa anche parte dei tanti progetti di riforma della scuola, parzialmente realizzati e parzialmente abortiti, di questi ultimi anni. Anche in scuole di profilo tecnico, il richiamo alla sola concretezza e la rinuncia ad una comprensione teorica dei fenomeni naturali può dare l’illusione di formare più rapidamente un giovane per la sua inserzione nel mondo del lavoro e invece lo danneggia in modo molto serio. occorre continuare ad insegnare il metodo scientifico come strumento essenziale per formare persone capaci innanzitutto di osservare la realtà, formulare ipotesi e risolvere problemi, piuttosto che ripetitori inconsci di gesti incomprensibili che provengono da un mondo misterioso ed inaccessibile.
D’altra parte, il metodo scientifico da solo non vale nulla se dietro non c’è un uomo e la sua vita. Ripensiamo a Galileo con il suo cannocchiale, a Newton e alla pestilenza, la passeggiata alla fiera di Stourbridge ed il prisma. Senza questi uomini e le circostanze che hanno vissuto, il metodo scientifico sarebbe una sterile enunciazione di principi senza conseguenze e il mondo di oggi assomiglierebbe ancora a quello che è stato per millenni. Non è dunque lungimirante rendere così difficile ed impervia la strada dei giovani che vorrebbero dedicarsi alla scienza; non si può farlo impunemente, senza impoverire tutta la società.
Negli ultimi anni c’è stato ad esempio un notevole flusso verso la Francia di giovani fisici formati eccellentemente nelle nostre università che, nell’impossibilità di condizioni di vita minimamente decenti in Italia, hanno trovato accoglienza Oltralpe, spesso sbaragliando la concorrenza internazionale. L’emigrazione dei fisici italiani verso le altre nazioni d’Europa e gli Stati Uniti c’è sempre stata ovviamente (Guglielmo Marconi ed Enrico Fermi i casi storici più eclatanti). Ma l’accentuazione recente del fenomeno è piuttosto impressionante. È questo per noi motivo di orgoglio o di vergogna? In direzione contraria, i supermercati francesi, le banche, le compagnie di assicurazione, il settore energetico, quello zootecnico e perfino l’alta moda stanno facendo man bassa da noi. Dove sta l’errore, se errore c’è?
Infine la crisi. La crisi che stiamo attraversando è una crisi finanziaria, si sa. La finanza è la tecnica (alcuni direbbero la scienza) della gestione del denaro. Con una politica screditata e ridotta ai minimi termini, la finanza pare governare i destini del mondo. Ma se bisogna ricusare la tecnica finanziaria che ha generato la crisi, seguendo (se non altro) il metodo scientifico bisognerebbe anche accantonare il punto di vista teorico che fonda l’economia sulla rappresentazione dell’uomo come ingranaggio della grande macchina economica. Ora, questo è proprio ciò che rifiutiamo di fare. Si pensa di poter risolvere la crisi con mezzi esclusivamente tecnici, un governo di tecnici, nuove regole, nuova organizzazione, ma la stessa rappresentazione del mondo, gli stessi principi. Ci riusciremo?