Oskar Schindler “il mascalzone”, lo chiamavano – con il gioco di parole schindler-schwindler – gli abitanti di Svitavy, la cittadina morava dov’era nato nel 1908 e dove convivevano tedeschi della regione dei Sudeti (in maggioranza), cechi ed ebrei.

Oskar ha un’infanzia piuttosto turbolenta, gli piacciono i motori e la vita mondana, è un precursore della mobilità lavorativa. Anche il matrimonio con Emilie Pelzl va presto in crisi, e il suo carattere impetuoso lo porta ad avere guai con la giustizia. Quando l’onda del nazionalsocialismo si propaga dalla Germania nelle regioni ceche di confine, Oskar diventa membro del Partito dei tedeschi dei Sudeti, fantoccio del Partito nazista. Per poter continuare il tenore di vita cui è abituato, Schindler accetta di entrare nell’Abwehr, lo spionaggio tedesco, e di passare informazioni logistiche e militari su Cecoslovacchia e Polonia. È considerato un confidente coraggioso, guadagna somme elevate e allaccia contatti molto in alto che gli serviranno negli anni a seguire. Nell’ottobre 1939, al seguito dell’invasione della Polonia, è inviato a Cracovia con il compito paradossale di sorvegliare l’attività degli altri corpi di polizia del Reich, in competizione fra loro. Nel frattempo fiuta la possibilità di fare business e arricchirsi con facilità.



E qui lo incontriamo nel famoso film di Spielberg, dove intavola una rischiosa partita a scacchi con il regime nazista in cui la posta in gioco non sono più milioni di Reichsmark, ma la vita sua e dei suoi operai-prigionieri.

Ma nella Cecoslovacchia del dopoguerra, liberata dall’Armata Rossa e finita nell’orbita filosovietica, Schindler rientra fra i tre milioni di tedeschi dei Sudeti sospettati indiscriminatamente di collaborazionismo ed espulsi in Germania e Austria. Viene aperto in contumacia un processo a suo carico, lo accusano di aver sostenuto il nazismo e di aver tradito il proprio Paese, rischia l’ergastolo o la pena di morte, nonostante gli interventi di Wiesenthal in sua difesa. La storiografia marxista che celebra il “glorioso partigiano rosso”, unico deputato a salvare il mondo, considera Schindler un “ex imprenditore sfruttatore di prigionieri” che solo alla fine della guerra avrebbe cambiato atteggiamento “tanto da essere celebrato persino in Israele come difensore degli ebrei”.



Del resto gli stessi ebrei liberati dai sovietici e cooptati nel paradiso socialista non hanno certo avuto vita facile: al ritorno dai campi di concentramento, oltre all’angoscia per la perdita dei familiari, si trovano le case abitate da estranei e le loro aziende nazionalizzate dallo Stato. Quando cambia la politica sovietica nei confronti dello Stato d’Israele, anche nei Paesi satelliti si diffonde la nuova parola d’ordine: “sionismo”, inteso come “una peculiare forma reazionaria e nazionalistica dell’imperialismo”. La campagna antisionista culmina in Cecoslovacchia nei primi anni 50 con una serie di processi-farsa a carico di politici – uno fra tutti quello contro Rudolf Slansky, che termina con l’impiccagione di 11 imputati, di cui 8 ebrei.



Vengono interrotti i rapporti diplomatici con Israele (ripresi solo nel ’90 grazie a Havel), viene limitata la libertà religiosa e avviata la schedatura dei cittadini ebrei (dati personali, vita associativa e lavorativa, legami con parenti all’estero e relativo controllo della corrispondenza), operazione utile per filtrarne l’accesso ai posti-chiave di imprese e istituzioni. Le autorità comuniste attingono direttamente dalle informazioni sui prigionieri ritrovate nei lager nazisti…

Verso la fine degli anni 50 l’“antisemitismo burocratico” allenta la presa, e per i circa 30mila ebrei cecoslovacchi la situazione migliora, anche se restano discriminati a livello religioso.

Dopo l’invasione sovietica del ’68 viene introdotto un nuovo concetto doppiamente negativo: l’“intellettuale ebreo”, fiancheggiatore delle “forze controrivoluzionarie”, “cosmopolita e sionista”. Ne fanno le spese anche personaggi politici di primo piano, come Sik, Kriegel, Goldstücker. Nel libro Sionismo e antisemitismo, F. Kolar nega addirittura l’esistenza dell’antisemitismo: “Questo problema non esiste né da noi, né in Urss o in qualunque altro paese socialista. E non permetteremo ai sionisti o alla propaganda imperialista di riesumarlo”. Quando invece è necessario dare un volto al colpevole della “crisi” che aveva portato al ’68, ecco comparire “gli intellettuali ebrei, iniziatori della controrivoluzione” e “i sionisti, servi dell’imperialismo occidentale”.

Nel ’71 riprende il monitoraggio degli ebrei al fine di “tracciare un quadro complessivo degli ambiti delle loro attività, per individuare e smascherare la loro attività ostile e paralizzare l’influsso negativo dei sionisti e delle loro organizzazioni che dall’estero influenzano la comunità religiosa ebraica”. Nel gennaio ’77, all’indomani della diffusione del documento programmatico di Charta 77, il Rudé právo la condanna come iniziativa “delle centrali anticomuniste e sioniste”, e negli anni successivi l’operazione “Risanamento”, con cui la polizia politica “caldeggia” l’espatrio, è rivolta non solo ai dissidenti ma anche agli ebrei.

Morto nel ’74, il “mascalzone” di Svitavy, quell’anarchico al quale – come ha scritto Keneally – piace mettere in ridicolo il sistema, che ama la trasparenza e la semplicità delle buone azioni, che è capace di sentirsi oltraggiato dalla crudeltà e di reagire, resta un personaggio scomodo per chi fa una lettura ideologica della storia, e ancora alla fine degli anni 90 in Repubblica Ceca qualcuno ha cercato di offuscarne la memoria.

“A Gross-Rosen – ricorda Joseph Bau, uno degli ebrei salvati – ci vennero sequestrati i nostri averi, fra le mie cose c’era un libro di poesie e di memorie… Qualche giorno dopo il nostro arrivo a Brünnlitz, Schindler entra nell’officina e chiede di me. Mi porge il libro di poesie e mi dice: “Credo che questo sia suo”. Che tipo era? Non l’ho mai capito”. 

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