«Furono la prigione e il lager a fare di me lo scrittore che sono oggi» disse suo padre Aleksandr. Oggi, Ignat Solženicyn, figlio del grande scrittore russo sopravvissuto al Gulag, testimone di un popolo, vincitore del Nobel, è musicista di fama. Direttore aggiunto dell’Orchestra sinfonica di Mosca, pianista, deve la passione per la musica a circostanze meno drammatiche. La causa? «Quasi certamente un pianoforte che stava nello studio della casa di Cavendish, nel Vermont, dove la mia famiglia si era trasferita» banalizza oggi il maestro. Si trova a Milano in occasione della prima edizione italiana del primo romanzo del padre, Ama la rivoluzione!, da poco in libreria per i tipi di Jaca Book. Ovvero la storia di come ci si può innamorare della rivoluzione, il più grande mito del XX secolo, e rimanerne delusi. Per sempre.
Incontriamo Ignat Solženicyn e cominciamo proprio dalla musica. «È stata una molla interna, quasi inspiegabile. D’altra parte in casa nostra la musica si ascoltava ogni giorno. Ne eravamo circondati, nonostante i miei genitori non l’avessero studiata. Ma la amavano».



Suo padre è stato, a suo modo, un «artista» della lingua: su di essa ha fatto un lavoro particolarissimo, unico. Questo approccio ha condizionato la sua formazione?

In un certo senso sì: mi ha aiutato a comprendere l’essenza dell’arte. La musica, come la scrittura, è un’arte «manifatturiera». Chiede un lavoro accuratissimo, pignolo. Perché l’ispirazione è una cosa, ma l’impegno scrupoloso, giornaliero, perfino umiliante a volte, è un’altra. È quest’ultimo che dà il risultato.



Suo padre come ascoltava la musica?

Normalmente con i dischi, o alla radio. Prima di lasciare l’Unione Sovietica, frequentava spesso il teatro. Durante il periodo americano invece usciva di casa più raramente, ma la passione non è mai venuta meno. Poi cominciò ad ascoltare anche me.

Suo padre è sempre stato animato dalla volontà di ricostruire un popolo. Per lei questo è anche uno dei «compiti» della musica?

Molti miei colleghi musicisti di solito amano sopravvalutare il significato della musica per lo sviluppo della storia umana. Normalmente si dice che le parole, a paragone della musica, sono nulla, ma io non la penso così. Io credo che per la storia il valore della parola sia più grande di quello della musica; e la storia di mio padre lo conferma. La forza della musica è tutta interna all’esperienza che se ne fa. In essa un uomo mette tutta la forza del suo cuore, i suoi sentimenti. Direi così: non sono sicuro che la musica possa cambiare l’andamento della storia, sono però sicurissimo che trasforma la vita delle persone che la amano.



Suo padre ha cominciato molto presto a pensare alla rivoluzione. Questa parola oggi ha ancora una senso?

Sì, certamente. Ha lo stesso significato di sempre. Ma il secolo appena trascorso ci ha illuminato sulla profonda verità, e sulla tragedia, di tutte le rivoluzioni. Qualsiasi rivoluzione può – forse – togliere di mezzo i portatori del male, ma mai il male stesso. Finché non capiamo fino in fondo questo insegnamento della storia, nessuna rivoluzione potrà portare qualcosa di bene alla comunità.

Qual è la chiave di lettura di Ama la rivoluzione! che si sente di proporre ai lettori italiani?

 

Il cambiamento della mentalità. È la storia di un giovane (dietro il protagonista Gleb Neržin c’è lo stesso Aleksandr Solženicyn, ndr), sicuro di se stesso, della sua ideologia e della sua assoluta, oggettiva necessità, che a causa di certi eventi e di certi incontri incomincia a cambiare. Lo vediamo, man mano, cedere terreno, allontanarsi dall’ideologia, abbracciare la verità. Il suo cammino interiore è il perno di tutto il racconto.

Neržin scopre il vero volto degli uomini. E in questa scoperta ha un valore particolare l’affetto, il provare pietà per gli altri. Questo può essere un rimedio alla gabbia dell’ideologia ancora oggi?

Sì. Come l’Arte, con la A maiuscola, deve servire a qualcosa di più grande del suo esecutore, così l’amor di sé è la cosa più brutta che può esservi in noi stessi. Solo se questo amore ama anche l’altro, è amore vero.

Nel famoso discorso che tenne in occasione del Premio Templeton, nel 1983, suo padre disse a proposito della grande crisi del secolo: «l’uomo ha dimenticato Dio, tutto quello che avviene ne è la conseguenza». Secondo lei questo giudizio è ancora attuale?

Vede, ho avuto modo di riflettere molto su questi temi. Il medioevo è stato tutto dominato dalla volontà di dare all’anima il primato sul corpo, considerato come un ostacolo nel rapporto con Dio. Il rinascimento e l’illuminismo hanno certamente cambiato molte cose; oggi siamo dominati dal culto del corpo, però ci vergogniamo di parlare dell’anima. Nonostante molti progressi e il raggiungimento del benessere, soprattutto in occidente, la domanda su Dio è ancora aperta, esattamente come è ancora vitale ogni tentativo di soffocare le grandi domande dell’anima. Sì, la crisi che mio padre denunciava, pur sotto altre forme è ancora aperta.

Qual è, oggi, il ricordo più nitido che conserva di suo padre Aleksandr Solženicyn?

La sua grande tenerezza. Un’immagine assai lontana dalla sua icona dominante, dovuta alle poche, ma comuni fotografie che si hanno di lui – quella di un personaggio assai severo, con i tratti, quasi, del profeta. Certamente nel suo carattere c’era questa severità, però era soltanto una delle tante sfumature. Non solo: aveva anche un grande humour…