È da ieri che i giornali danno spazio all’ultima trovata di alcuni consulenti Onu dell’associazione «Gherush92»: La divina commedia è intrisa di «razzismo», «presenta contenuti offensivi e discriminatori» nei confronti di ebrei, islamici, omosessuali. 

Si tratta di «un’opera che calunnia il popolo ebraico», da Caifa (sommo sacerdote che «consigliò i Farisei che convenia» uccidere Gesù, e che Dante presenta «crocifisso in terra» e calpestato da tutti gli ipocriti), fino a Giuda, conficcato in fondo all’inferno in una delle tre bocche di Lucifero, mentre «’l capo ha dentro e fuor le gambe mena». Maometto, poi, «seminator di scandalo e di scisma», avendo spaccato l’unità del corpo cristiano, si ritrova per contrappasso diviso nel suo stesso corpo, «rotto dal mento infin dove si trulla» (cioè si scorreggia), mentre «tra le gambe pendevan» le interiora e lo stomaco («’l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia»).



Caro Dante, i nuovi moralisti ti insegnano che così tu offendi Caifa, Giuda e Maometto con «termini volgari e immagini raccapriccianti»: «è uno scandalo che i ragazzi, in particolare ebrei e mussulmani, siano costretti a studiare opere razziste come la Divina Commedia». Da qui la richiesta al ministro dell’Istruzione «di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali»: «la continuazione di insegnamenti di questo genere rappresenta una violazione dei diritti umani» e fomenta «le persecuzioni antiebraiche» addirittura «fino alla Shoah. Certamente la Divina Commedia ha ispirato i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, le leggi razziali e la soluzione finale».



Dante ha ispirato Hitler, insomma. E in questo mondo in cui ormai siamo tutti tolleranti, va eliminato chi si permette di dire qualcosa di diverso da quanto piace alla mentalità comune. Pazienza se nessun altro più di Dante, proprio descrivendo lo stomaco di Maometto, ci lascia intravedere una possibilità della lingua poetica (ossia della ragione) così sorprendentemente realistica e lontana dai ragionamenti astratti.

Il popolo dei permalosi si offende per ogni parola non approvata dal politically correct: «cieco», «negro», «ignorante», «handicappato» sono state tutte immolate sull’altare degli dèi del bon ton. Dire poi che Giuda ha tradito Gesù, che Caifa lo ha fatto uccidere, che Maometto ha portato divisioni non sarebbero constatazioni ma insulti. Da oggi in poi, se qualcuno mi dirà che non so giocare a basket, non dovrei prenderla più come constatazione bensì come offesa alla mia sensibilità, e chiedere a qualche ministro di proteggere i diritti dei «diversamente giocanti».



C’è qualcuno che vorrebbe assimilare la poesia a una chiacchierata elegante ma vuota fra signorine col cagnolino ai bordi di un campo di golf: una poesia alla John Lennon («no heaven», «no countries», «no religion», «no possessions»), in cui non c’è spazio per nessun altro colore se non per i sette dell’arcobaleno, cioè per quello che la mentalità del momento suggerisce come ben accetto. La storia del messaggio positivo dell’opera d’arte nasconde una precisa ideologia, che cerca nell’altro soltanto la replica di se stesso: una noia mortale!

L’arte invece, come la vita, è un incontro, e non c’è bisogno di essere già d’accordo con chi scrive o con chi parla: porta con sé tutto il gusto del rapporto imprevedibile con qualcosa d’altro. Cosa cerchiamo leggendo Dante? Soltanto la conferma alle nostre idee o – che è lo stesso – la dialettica con esse? È questo il punto debole dei nuovi catechisti dei diritti universali: non riescono ad aprirsi alla possibilità di scoprire qualcosa che è diverso da loro. Ma leggere non è una liturgia, in cui sappiamo già cosa aspettarci, bensì l’incontro con qualcosa che ci sfida: cosa ha scritto Dante? perché lo ha scritto? cosa c’è di vero? Dall’incontro con un’opera non si esce in accordo o in disaccordo, ma sfidati. 

Chi non accetta questa sfida, finisce per blaterare di rispetto per chi è diverso, ma non si accorge di desiderare un pianeta fatto di esseri tutti uguali, anziché ciascuno unico e irripetibile. A quel punto perfino Dante può finire davanti al tribunale delle proprie fissazioni conformistiche, che invocano sovieticamente epurazioni di Stato. Non è una lotta di principio, ma di potere: in fondo, non sono dispiaciuti né per Maometto né per Giuda, non conta la loro colpa né la loro salvezza; semplicemente, non avendo il talento artistico e conoscitivo di Dante, provano a vincerla a colpi di diritti, in modo da mettere nell’inferno non quelli che ci ha messo il poeta ma quelli che ci metterebbero loro. Per favore, però, «smettetela di pensare ai vostri diritti, smettetela di chiedere il potere» (Pasolini).

In un mondo di «puritani apostati» (C.S. Lewis), ci è ancor più necessaria la libertà di Dante, che non si è fatto problema di invocare nello stesso poema le Muse e la Madonna, di parlare di Dio e della zanzara, di condannare i papi e di salvare le prostitute. Forse non aveva pensato al sindacalismo dilagante: doveva aspettarsi la querela dei lussuriosi, dei papi, degli omosessuali e dei traditori, perché tutti hanno diritto a esprimere la loro opinione. A Dante, però, non interessava la categoria astratta ma il singolo uomo: chiamava peccato il peccato, ma salvava perfino un indiano che «muore non battezzato e sanza fede». Non si è preoccupato di come schierarsi nei confronti degli ebrei né quando ha fatto di Giuda il peggior peccatore né quando ha messo in Paradiso altri ebrei come Gesù, la Madonna, gli apostoli, Davide ed Ezechia.

Aveva ragione Giorgio Gaber: «Siamo talmente preoccupati per il sopruso fatto su un singolo individuo che non ci preoccupiamo affatto per il sopruso che subiscono tutti gli altri individui costretti a sorbirsi una valanga di cazzate». E «se abbiamo già sperimentato quanto faccia male una dittatura militare, non sappiamo ancora quanto possa far male la dittatura della stupidità».