Per due volte nel dopoguerra il premio Nobel per la letteratura è andato alla cosiddetta “scuola poetica polacca”, come la definì Czeslaw Milosz: nel 1980 allo stesso Milosz e nel 1996 a Czeslawa Szymborska.

Con la definizione di “scuola poetica polacca” si intende un gruppo di poeti testimoni dei due totalitarismi del XX secolo, molto diversi fra loro per storia e stili poetici, ma uniti dalla capacità di parlare di ciò che è fondamentale nella vita: della persona, delle sue esperienze esistenziali, etiche, metafisiche, religiose e delle scelte fondamentali che opera. Si può dire che la poesia polacca del dopoguerra ci si riveli come tentativo, certamente riuscito, di riproporre decisamente la tematica del significato della parola, ma soprattutto dell’esistenza umana. I poeti della “scuola poetica polacca”, esposti ad un gravissimo pericolo esistenziale per le atrocità della seconda guerra mondiale e per il susseguirsi di due sistemi totalitari e disumani, decidono, quindi, di riproporre ed amplificare il significato stesso della poesia, ma soprattutto della vita, andando oltre il simbolismo, l’ermetismo e il modernismo.



La Szymborska e Milosz hanno avuto in patria e all’estero, in particolare in Italia, sorti e fortune diverse.

Czeslaw Milosz è rimasto in Italia un poeta di nicchia, quasi sconosciuto alla gran parte dei lettori, praticamente assente dalle pagine dei giornali e dai mass media, basti pensare al silenzio in cui è caduto lo scorso anno il centenario della sua nascita, quasi ci fosse una sorta di imbarazzo nel considerare un poeta che pone domande e propone risposte, che, dopo una prima adesione all’ideologia comunista dominante nel suo paese, ben presto se ne distacca con un gesto clamoroso e sceglie la strada dell’esilio, anche correndo grandi rischi per la propria incolumità; e, soprattutto, un poeta ed intellettuale che professa apertamente la sua fede ben radicata nella tradizione cattolica, tanto che pochi anni prima di morire aveva chiesto in una lettera a Giovanni Paolo II la conferma di non essersi discostato dall’ortodossia cattolica. Ben diversa è stata, come vedremo, la sua fortuna in patria.



Wislawa Szymborska, invece, ha trovato in Italia grande accoglienza, le sue poesie sono oggi un best seller, mentre in patria pur essendo letta ed apprezzata ha trovato un’accoglienza diversa, meno enfatica, a volte più problematica.  

Szymborska riceve il Nobel nel 1996, quando la Polonia è già saldamente avviata sulla strada delle riforme, e la notizia, ovviamente, suscita in generale grande soddisfazione, ma solleva anche accese polemiche per il suo passato di adesione attiva allo stalinismo e per il contributo da lei dato alla propaganda di regime. Lo stesso anno viene eletta “uomo dell’anno”, ma non diviene e non diverrà mai un “fenomeno pubblico”, come era, invece accaduto per Czeslaw Milosz sedici anni prima, sia per scelta personale, sia perché diversa è la situazione della Polonia quando i due poeti ricevono il Nobel, sia, forse, per la differenza delle loro storie personali.



Leggiamo sul popolare settimanale Wprost del 1996: “Un tempo i poeti e gli scrittori esercitavano una grande influenza sull’immaginario collettivo, davano il tono, indicavano la direzione. (…) Oggi sono divenuti un’enclave elitaria all’interno della cultura di massa”.

La Szymborska in patria non esce dal ruolo più intimo del poeta, che parla al cuore del singolo, la sua poesia pone domande sul senso e non azzarda risposte, e forse anche a questo si deve il suo clamoroso successo all’estero, i suoi versi sono, come si legge nella prefazione ad uno dei volumi polacchi delle sue poesie “nello spirito di Leibniz e Giordano Bruno”.

La storia personale della Szymborska è complessa e problematica. Certamente la sua iniziale adesione attiva al regime e il successivo rifiuto del sistema sono stati per lei drammatici e l’hanno costretta ad una “rinascita” personale e poetica, che, però, è avvenuta sostanzialmente nel chiuso del suo intimo, senza che mai ci sia stata una sua pubblica presa di posizione nei confronti del regime e di se stessa, senza che mai ci sia stata una sorta di “autocritica”, che certamente una parte dell’opinione pubblica polacca attendeva.

Tra le critiche più forti che le sono state mosse in patria vi sono la sua firma nel 1953 sulla dichiarazione di 52 personalità del mondo culturale di Cracovia di appoggio al processo intentato contro alcune decine di sacerdoti della curia di Cracovia accusati di essere spie al soldo degli Stati Uniti (per questo tre di loro furono condannati a morte e gli altri all’ergastolo), le opere in cui esaltava il leninismo e lo stalinismo e la lettera di condanna di Radio Europa Libera del 1964.

Quando nell’ottobre 1980 la Polonia fu raggiunta dalla notizia che Czesław Miłosz aveva vinto il premio Nobel per la letteratura, la situazione era stata ben diversa: il paese era all’inizio della grande stagione di Solidarność: da pochi mesi si erano conclusi gli scioperi dell’agosto 1980, Solidarność, il primo sindacato libero di un paese del blocco socialista, stava per essere ufficialmente riconosciuta e la Polonia stava entrando in un periodo di grandi cambiamenti. Il premio all’autore della Mente prigioniera fu come la conferma che la “Polonia stava realmente alzando la testa”, come anni dopo disse il giornalista ed esponente di Solidarność Konstanty Gebert. Il 16 dicembre dello stesso anno fu solennemente inaugurato davanti ai cantieri di Danzica il monumento ai caduti durante le proteste del 1970: tre altissime croci, alla base le parole del salmo “Il Signore benedice il Suo popolo, il Signore dona la libertà al Suo popolo” e di una poesia di Miłosz:

“Tu che hai offeso l’uomo semplice
ridendo sguaiatamente sulla sua sventura
con intorno una corte di buffoni
per confondere bene e male
(…)
non sentirti al sicuro. Il poeta ricorda.
puoi ucciderlo – ne nascerà un altro.
saranno messi a verbale atti e parole”.

Per la sua opera, la sua storia personale, la sua condizione di poeta-esule, e per il prezzo che aveva pagato per il suo amore alla verità, Miłosz appariva, come era accaduto per i grandi poeti della poesia polacca – Mickiewicz, Norwid, Słowacki, Sienkiewicz – il poeta-vate, incarnazione della coscienza e del cuore della nazione: le sue opere da anni giravano nella stampa clandestina ed ora il riconoscimento internazionale era quasi una conferma del valore di anni di sacrificio e di oscuro lavoro dell’intellighenzia polacca per salvaguardare l’anima del paese. L’entusiasmo fu quasi paragonabile a quello suscitato due anni prima dall’elezione di Giovanni Paolo II.

Nel giugno 1981 l’Università Cattolica di Lublino conferì a Miłosz il dottorato honoris causa. In quegli anni insegnavo italiano presso la stessa università ed ebbi la ventura di partecipare a quell’evento storico. Tutte le élites intellettuali del paese erano presenti e c’era Lech Wałęsa, che di lì a qualche anno avrebbe ricevuto il Nobel per la pace. Il cardinal Wyszynski, che era deceduto pochi giorni prima, il 30 maggio, era riuscito, pur già molto malato, a scrivere una lettera per l’occasione in cui, tra l’altro, affermava: «Sul neo laureato, la cui natura di uomo è inequivocabilmente religiosa, si leva “la Chiesa cattolica, che mi ha affascinato con la sua enorme costruzione…e con la sua storia”. (…) Oggi egli può dire di essersi salvato. È vero, ha subito sconfitte, ha ceduto alle illusioni, ne è stato vittima, come un vero esule, figlio di Eva, ma si è sempre e subito allontanato da ogni illusione, certo di avere un altro compito nella vita. In questo pellegrinaggio solitario attraverso la storia, egli porta se stesso, forse spesso con una ferita, ma sempre, come immagine dell’uomo del XX secolo, che ha vissuto molte esperienze e non vuole diventare schiavo né della tecnica di pensiero delle scuole filosofiche, né dei programmi sociali, (…), e neppure della tracotanza di poteri sempre più crudeli. Forse Egli è una sorta di “grido nella notte”, una sorta di segnale d’allarme dell’ultima ora, per lui, per la sua sofferenza, il compito più importante è salvare la libertà dell’Uomo».

Alla sua morte, ed anche questo è molto significativo, Czesław Miłosz è stato seppellito nella Cappella dei Polacchi Illustri a Cracovia, nella chiesa dei Padri Paolini a Skałka, il luogo reso sacro dal martirio di san Stanislao, dove riposano i polacchi che con la loro opera non solo hanno contribuito alla grandezza della cultura polacca, ma che soprattutto hanno dedicato la loro vita a preservarne l’anima nei momenti più bui della storia.