Gli Stati forti non trattano col terrorismo e la criminalità né all’interno del proprio paese né all’esterno. Possono seguire questa linea di condotta perché dispongono di mezzi di prevenzione, repressione e di intelligence in grado di fronteggiare chi attenta alle istituzioni, all’ordine pubblico e alla sicurezza. In secondo luogo la loro opinione pubblica è in prima linea nel non ammettere cedimenti o giri di valzer. È il caso, per intenderci, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.
Gli Stati deboli, invece, sono costretti ad avere comportamenti diversi anche se possono fingere – come facciamo noi italiani – di imitare i due grandi paesi occidentali. Il modo in cui si muovono può prevedere forme di scambio configurabili come una sorta di trattativa. Magari, come mi pare sia avvenuto in Italia, si tratta solo di normali contatti per reperire informazioni, lanciarsi messaggi al solo fine di studiare i passi del proprio nemico.
L’Italia è uno Stato debole, se non debolissimo. E con un’opinione pubblica che alla repressione impietosa, cioè all’uso della violenza costi quel che costi, preferisce sempre la salvezza dell’ostaggio e la punizione per via giudiziaria del terrorista o criminale.
La tendenza ad omologarci agli Stati forti porta a sottovalutare queste differenze che fanno parte della nostra stessa identità nazionale. Affondano la loro radice nel cattolicesimo e nel liberalismo risorgimentale in cui l’attenzione alle ragioni della comunità, della società civile, degli individui concepiti come persone è stata, e continua ad essere, dominante.
Si tratta di una cultura popolare non statolatrica (come quella impostaci da una scuola come quella di Vittorio Emanuele Orlando) che uno statista come Aldo Moro – nelle sue lettere dal carcere brigatista, in polemica con Cossiga, Andreotti, La Malfa, Pertini e il Pci –, le battaglie dei radicali e dei socialisti hanno sempre rivendicato. Voglio dire che l’impenitente retorica nazionale, creata dal fascismo, e alimentata dall’idea dello Stato-caserma (per poterlo meglio gestire una volta espugnato) del comunismo, anche di fronte all’attenuazione delle micidiali norme del 41 bis, suona la grancassa dello Stato ferito. Si parla di una sua resa a discrezione di Cosa nostra.
A dispetto delle risorse e dei servizi che non abbiamo, e di un costume nazionale lassista e arrendevole, si leva alta la bandiera dell’intransigenza e del rigore assoluto. Fingiamo cioè di essere un paese forte. Eppure, è stata una regola costante dei governi, approvata dalla popolazione, il pagamento miliardario dei riscatti per la liberazione dei nostri connazionali finiti nelle mani di bande criminali, locali o internazionali.
Dunque, grande è la confusione sotto il cielo. Quale prova esiste che due rappresentanti dello Stato (come il generale del Ros Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, sotto processo a Palermo), abbiano stabilito dei contatti con Bernardo Provenzano per trattare le condizioni della resa dello Stato invece che per cercare di catturare i grandi latitanti di mafia, come essi hanno sempre sostenuto? Le ipotesi senza prova sono l’insidia più forte che minaccia l’azione dei magistrati. La presa di posizione misurata e realistica del procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi e dei suoi collaboratori Nicolosi e Crini a questo riguardo ci protegge dal prolasso dei teoremi che ci vengono da alcune aule di giustizia di Palermo.
Si sostiene che lo Stato avrebbe ceduto alla mafia non prorogando o revocando, nel ’93-’94, 800 su 1200 decreti di sottoposizione al carcere duro. Ebbene, qualcuno dovrebbe spiegare che senso abbia avuto tutto ciò. Infatti, i pubblici ministeri di Firenze nella recente audizione alla Commissione antimafia hanno rilevato che ai boss di Brancaccio tali revoche non interessavano e che comunque i mafiosi detenuti che ne trassero vantaggio furono una quota minima.
Né hanno il minimo aggancio alla realtà i sospetti, le accuse, il carro armato di diffamazione trainato per circa vent’anni da settori irresponsabili della politica, della magistratura e della stampa, e rilanciato da Gaspare Spatuzza, secondo cui Forza Italia sia stata la “mandante o ispiratrice” degli eccidi di Capaci, via d’Amelio e poi degli attentati di Roma, Firenze e Milano. Resta, però, ancora da spiegare quale “canale di interlocuzione” (il termine è dei giudici di Firenze) abbia potuto indurre Leoluca Bagarella a rinunciare al progetto di creare un “partito della mafia”, chiamato “Sicilia Libera”. Ci fu un “negoziatore specifico” nei confronti del partito di Berlusconi e Dell’Utri? È certo che Cosa Nostra dopo la débacle della Prima Repubblica abbia cercato una sponda politica, ma non è certo che l’abbia trovata.
L’unica cosa sicura è che lo Stato abbia cercato di stabilire un terreno di non belligeranza, di pausa, se non d’intesa, con la mafia per porre fine alla sequenza delle stragi del ’93-’94.
Di fronte alla potenza di fuoco e alla preparazione impeccabile dell’attentato del 23 maggio 1992 a Capaci, in cui fu travolto il giudice Giovanni Falcone, apparati pubblici e segreti dello Stato si mostrarono una macchina imballata, incapace di realizzare qualunque opera di prevenzione. La nostra intelligence era, e continua ad essere, il maggiore imputato. È il caso di ricordare che era stata delegittimata al di là delle distorsioni e sconfinamenti gravi di cui è stata responsabile. Lunghi e aspri anni di attacchi, campagne devastanti, accuse finiscono sempre per indebolire la fibra delicata delle strutture addette all’informazione e quindi alla prevenzione. La sopravvivenza ad esse è quasi un miracolo.
Si brancolava nel buio, è vero. Si è cercato di costringere lo Stato con la violenza, ha ricordato il sen. Giuseppe Pisanu. Mi chiedo se una contrattazione sotterranea, che sfocerà nella disponibilità, avviata dal ministro Conso, a rivedere i decreti sul carcere duro previsto dall’art. 41 bis possa essere spacciata per trattativa. La normativa in vigore, ispirata ad un rigore in cui veniva meno il principio-obiettivo della rieducazione del detenuto, era degna di uno Stato di diritto? Le sue regole debbono valere anche nei confronti dei maggiori nemici, quali sono i mafiosi.
Di fronte alla superficialità con cui è stato ripreso il dibattito su queste vicende c’è da chiedersi se non si debba prendere a modello la cautela, il rigore, il desiderio oggettivo di approfondimento di cui ha dato finora prova la Commissione parlamentare d’inchiesta a Palazzo San Macuto.
Ha avuto finora uno stile britannico. Le posizioni di partito non hanno mai prevalso. La collaborazione tra i gruppi, il rispetto dei membri verso i colleghi di qualunque area o impostazione, la volontà di capire ha mostrato che da parte dei partiti si può fare una politica di alto livello anche in luoghi istituzionali in cui non ci sono state nomine tecniche. La Commissione dovrebbe utilizzare di più e meglio i poteri d’indagine che la legge le assegna. Non solo per ricostruire il passato, ma anche per agire sul presente. Impedendo che la peronospora mafiosa si insinui nelle candidature per le elezioni di ogni ordine e grado.
La preoccupazione di non invadere il campo dei tribunali è segno di grande delicatezza e cortesia istituzionale. Mi chiedo se un organo che come la Commissione dispone dei poteri dei giudici possa essere da meno di essi nel servirsene.